Caterina e gli Itnatuia

Questa fiaba l'ha scritta Serena, giovane studentessa di medicina che da una esperienza ospedaliera con una dolcissima ragazzina di nome Caterina ha messo insieme questa racconto dedicato a tutti i bimbi che soffrono (30 ottobre 2001).

Viveva una volta in un piccolo paese adagiato sui colli molto lontani da qui, una minuscola creatura di nome Caterina; piccola, esile e scattante era di una rara bellezza, ricordando le fate delle fiabe migliori. I suoi capelli erano colore dell’oro, lunghi e sempre ben pettinati, gli occhi erano blu come il più profondo oceano e sereni tanto da riuscire a trasmettere una sensazione di pace. Gambe e braccia erano magre magre tanto da vederle le ossa; nessuno avrebbe potuto, solo guardandola, immaginare la sua forza inesauribile. Caterina, al tempo della sua avventura, aveva tredici anni e tutti la chiamavano Chicca. Ma non andava a scuola come tutti gli altri ragazzini della sua età; aveva un insegnante personale, Francis, di origine inglese, che la istruiva in tutte le materie, storpiando in maniera buffa le parole più difficili. A Caterina piaceva molto ma poteva solo vederlo tre volte a settimana perché gli altri giorni si recava con il papà o la mamma in ospedale, in un reparto un po’ speciale, dove sono curate le persone con i reni malati. Il martedì e il giovedì a Chicca succedeva una cosa straordinaria: una macchina complicatissima le succhiava tutto il sangue dal braccio, lo filtrava come se fosse succo d’arancia e lo pompava nuovamente dentro di lei. Tutto questo in poche ore che Caterina trascorreva dormendo, leggendo o chiacchierando con i dottori o le infermiere che le volevano davvero bene e adoravano il suono della sua risata allegra e limpida come l’acqua quando sgorga da una sorgente, una risata di chi ha tanta voglia di vivere e non smettere di lottare. Perché la verità era che la nostra ragazzina era molto coraggiosa e combatteva ogni giorno contro le difficoltà del suo malanno e non si scoraggiava mai. Ma aveva tredici anni e tanta voglia di divertirsi; e fu proprio una delle tante occasioni in cui dimenticò le attenzioni che doveva avere verso se stessa che successe il pasticcio. Lei e i suoi amichetti erano andati con i genitori in montagna; Caterina e gli altri giocarono con il bob tutto il pomeriggio, incuranti della neve che iniziava a scendere e del freddo pungente. La mamma l’aveva richiamata più volte ma lei faceva finta di non sentire. E dopo qualche giorno si ammalò: un banale raffreddore, niente di più ma per Caterina era comunque grave. Le venne la febbre che, anziché scendere saliva alta facendole dolere insopportabilmente la testolina bionda. Iniziò a tossire forte appena si coricava la sera e i colpi erano così potenti che il suo corpicino tremava ogni volta. Indebolita, iniziò a dolerle anche il pancino, cosa che non le permetteva di ingoiare neanche un boccone: a sostenerla erano soltanto le carezze e le coccole di mamma e papà. Poi una mattina Caterina sembrava non volersi svegliare: la chiamavano e strattonavano ma lei non reagiva. Non è che non sentisse, li sentiva eccome ma era come se una mano leggera e irremovibile le chiudesse la bocca e un telo di seta fosse calato sui suoi occhi. Si sentiva bene, leggera e libera come non era mai stata: aveva l’impressione di poter anche volare se lo avesse voluto. Rimase così, sospesa, per un tempo interminabile durante il quale ebbe l’impressione di essere presa in braccio e trasportata da qualche parte, forse un letto più scomodo del suo. Infastidita, iniziò ad arrabbiarsi; non era divertente non poter fare assolutamente nulla e non poter comunicare con mamma e papà! Ma proprio mentre pensava queste cose, vide materializzarsi davanti a lei una strana figura con un buffo cappellino da baseball e una camicia stile hawaiano coloratissima e impreziosita da una margherita gialla nel taschino e un paio di pantaloni arancioni; un vero pugno in un occhio! Era basso e grassottello (per nulla bello a dire la verità!) ma ciò che colpì Caterina furono gli occhi neri come il carbone e dolcissimi, come quelli della sua mamma; sul cappellino era stampato a lettere maiuscole il nome Olegna. “Ciao Caterina,- disse ad un tratto- benvenuta nel mondo degli Itnatuia del quale io faccio parte a tutti gli effetti – aggiunse con malcelato orgoglio. “Mondo di chi?” disse la piccola. “Degli Itnatuia- ripeté lui- ovvero gli aiutanti. Degli uomini, si intende.” “E per quale motivo io non ti ho mai visto?” “Perché solo ora tu hai avuto bisogno di noi; finora hai sempre fatto da sola e questa è una cosa bellissima. Adesso non più.” “Ma perché mi serve il vostro aiuto?” incalzò Caterina incuriosita. “Perché hai perso il tuo sorriso;- disse lui dolcemente alla faccia sbalordita di lei- quando hai smesso di sorridere, io che ti ho sempre controllata da lontano, senza mai farmi vedere, sono corso dal grande Opac, il nostro re e gliel’ho riferito immediatamente. Lui, allarmato, mi ha ordinato di aiutarti. Ma tu ti rifiutavi, non volevi, mi respingevi…” “Io non ho mai rifiutato nessuno!” incalzò Chicca piccata. ”Oh no, tu non te ne rendevi conto. Ma quando io cercavo di comunicare con te, tu stringevi forte forte i pugni e lottavi da sola, senza dare a vedere che avevi bisogno di aiuto. E così abbiamo deciso di farti venire nel nostro mondo per poterti parlare direttamente.
Noi non ci facciamo quasi mai vedere, solo in casi straordinari, come il tuo. Solitamente ci mostriamo ai bambini perché sono più sensibili e obbedienti. Ma ora ascoltami bene perché non c’è più tempo. Tu vuoi tornare a sorridere?” “Oh sì, lo voglio tanto!” “Benissimo, era proprio questo che volevo sentire. Allora, fai quello che ti dico: all’inizio lasciati andare, calma e serena, stendi gamba e braccia e respira profondamente. Al mio via raccogli tutte le tue forze come se dovessi spostare qualcosa di molto pesante e chiudi gli occhi. Hai capito bene?” “Certo, sono pronta!” disse Caterina orgogliosa del compito affidatole e iniziò a rilassarsi come quando la sera si va a dormire. Dopo qualche minuto sentì Olegna urlare: “Forza, Chicca, adesso! Buona fortuna!” La bimba fece solo in tempo a dire grazie (come mamma e papà le avevano insegnato) che intorno a lei apparvero come dal nulla tre Itnatuia che la incitarono a tenere duro. Alla sua destra Olegna le teneva la mano stretta in un rassicurante pugno. Poi, all’improvviso, una luce intensissima le accecò gli occhietti blu e da un enorme cerchio rosso fuoco uscì un omone alto, alto, con una lunga barba folta e grigia e due mani immense che le si posarono con una inaspettata delicatezza sul pancino. Due occhi grandi la guardavano dall’alto infondendole, senza bisogno di parlarle, una serenità mai provata e, nello stesso tempo, una forza senza precedenti. Opac, il re di questi strani esseri, iniziò a soffiare sempre più forte fino a scatenare un vento terribile, tale per cui Caterina fu costretta a chiudere gli occhi e ripararseli con la mano libera. Provò una sensazione stranissima: era come se dal suo corpo fosse portato via qualcosa di cattivo, che la faceva star male. Si accorse che il vento era cessato e sul suo viso aleggiava ora una brezza primaverile, piacevole e tiepida che la rendeva felice: Caterina si rese conto di aver voglia di sorridere.
Aprì gli occhi a fatica e una luce accecante la costrinse a richiuderli subito. Pensò si trattasse di Opac e, invece, si trovò accanto papà e i dottori che, con le lacrime agli occhi la abbracciarono e baciarono, contenti come se non la avessero più vista da un tempo lunghissimo. Non si accorse che mancava la mamma; era stanca e si addormentò subito, facendo sogni bellissimi.
Da quel giorno Caterina tornò in ospedale solo ogni tanto, per qualche visita veloce o per salutare i suoi amici; iniziò ad andare a scuola con tutti gli altri bambini e a giocare e divertirsi con loro e non perse più il sorriso. Solo una sera, tanto tempo dopo, quando la mamma arrivò a darle il bacio della buonanotte, le raccontò la storia degli Itnatuia e del loro re Opac. La mamma la ascoltò interessata e quando Chicca le disse che Olegna aveva occhi grandi e dolci come i suoi, una lacrima d’amore e commozione le inumidì il viso. “E’ stato davvero gentile Olegna- le sussurrò in un soffio- a regalarti un suo rene sano.”

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