Gianbabbeo
Hans Christian Andersen
Questo testo è stato inserito da: Chiara . (22 dicembre 2008).
In campagna si trovava una fattoria dove viveva un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi avesse saputo tenere meglio una conversazione. I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente dato che avevano già una certa cultura, la qual cosa tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da cima a fondo e viceversa, l’altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d’arti e mestieri e aveva imparato tutto quanto deve sapere il decano di una corporazione; così riteneva di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e in più imparò pure a ricamare le bretelle, essendo di gusti raffinati e molto abile. “Io otterrò la figlia del re!” dicevano tutt’e due. Il padre diede a ciascuno un bellissimo cavallo; l’esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Dopo si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, di modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel momento arrivò il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e infatti lo chiamavano Gianbabbeo. “Dove state andando vestiti così a festa?” domandò. “A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito ciò che il banditore ha annunciato in tutto il paese?” e glielo spiegarono. “Accidenti! Allora vengo pure io!” esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e partirono. “Padre, dammi un cavallo!” gridò Gianbabbeo. “M’è venuta gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io”. “Quante storie!” rispose il padre. “Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei capace di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!”. “Se non potrò avere un cavallo” concluse Gianbabbeo, “mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare”. E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava! “Arrivo!” gridava, e si mise a cantare a squarciagola. I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia. “Ehi, là!” gridò Gianbabbeo, “sto arrivando anch’io! Guardate cosa ho trovato per strada!” e gli fece vedere una cornacchia morta. “Babbeo!” risposero i due, “cosa ne vuoi fare?”. “Voglio portarla in dono alla figlia del re!”. “Fai pure” dissero ridendo, e continuarono a cavalcare. “Ehi, voi, arrivo! Guardate che cosa ho trovato ora, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!…”. I fratelli si girarono di nuovo per vedere cos’era. “Babbeo!” dissero, “è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Pure questo è per la figlia del re?”. “Sicuro!” rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel po’. “Ehi, eccomi qui!” gridò Gianbabbeo. “Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!”. “Che cos’hai trovato adesso?” chiesero i fratelli. “Oh, una cosa incredibile!” disse Gianbabbeo, “chissà come sarà contenta la figlia del re!”. “Ma è fango appena preso dal fosso!” esclamarono i fratelli. “Proprio così” rispose Gianbabbeo, “e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!” e si riempì la tasca. I fratelli cavalcarono via, spronando più che poterono i cavalli, e arrivarono un’ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d’ordine, come tutti gli altri aspiranti via via che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano talmente stretti da non poter muovere le braccia, ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate solo perché uno si trovava davanti all’altro. Tutti gli altri abitanti del paese si erano riuniti intorno al castello e si arrampicarono fino alle finestre per vedere la figlia del re ricevere gli aspiranti: appena uno si trovava nella sala, restava senza parole. “Non vale nulla!” diceva la figlia del re. “Via!”. Entrò il primo dei fratelli, quello che sapeva il vocabolario, ma lo aveva scordato stando in fila; inoltre il pavimento scricchiolava e il soffitto era tutto uno specchio, così lui si vedeva a testa in giù; e poi a ogni finestra c’erano tre scrivani e un caposcrivano, che scrivevano tutto ciò che veniva detto perché venisse subito pubblicato sul giornale e venduto all’angolo per due soldi. Era terribile; e inoltre la stufa era così calda che il tubo era diventato tutto rosso. “Fa così caldo qui dentro!” disse il pretendente. “E’ perché oggi mio padre deve arrostire i galletti”, rispose la figlia del re. “Ah!” e si fermò; non si aspettava una conversazione di quel genere e non seppe più che dire, dato che voleva dire qualcosa di spiritoso. “Ah!”. “Non vale niente!” concluse la figlia del re. “Via!” e così quello se ne dovette andare. Entrò quindi suo fratello. “Qui fa un caldo terribile!” disse. “Sì, arrostiamo i galletti, oggi” rispose la figlia del re. “Come? Cosa?” disse lui, e tutti gli scrivani registrarono: come? cosa? “Non va bene!” esclamò la figlia del re. “Via!”. Poi entrò Gianbabbeo, ancora sopra il suo caprone. “Qui dentro c’è un caldo da bruciare!” disse. “E’ perché arrostiscono galletti!” spiegò la figlia del re. “Molto bene!” esclamò Gianbabbeo. “Possono arrostire anche la mia cornacchia?”. “Sicuro che possono” rispose la figlia del re, “ma lei ha qualcosa in cui metterla dentro? Noi non abbiamo né pentole, né padelle”. “Ce l’ho!” disse Gianbabbeo. “Ecco qui una padella, col manico di stagno!” e tirò fuori il vecchio zoccolo e ci mise dentro la cornacchia. “E’ un pranzo completo!” commentò la figlia del re. “Ma dove troveremo il sugo?”. “Lo tengo in tasca” disse Gianbabbeo, “ne ho così tanto da poterne buttar via!” e intanto versò un po’ di fango dalla tasca. “Mi piaci! ” esclamò la figlia del re. “Tu sì che sai rispondere. E sai anche parlare, perciò ti voglio come marito. Ma sai che ogni parola che diciamo e che abbiamo detto viene trascritta e uscirà sul giornale di domani? A ogni finestra siedono tre scrivani e un vecchio caposcrivano, e questo è il peggiore di tutti, perché non capisce niente!”. Disse così per spaventarlo. Tutti gli scrivani si misero a ridere e macchiarono di inchiostro il pavimento. “Ah, dunque sono loro i padroni!” esclamò Gianbabbeo. “Allora devo dare la parte migliore al capo! ” e rovesciò la tasca e gli gettò del fango proprio in faccia. “Ben fatto! ” disse la figlia del re. “Io non ne sarei mai stata capace, ma imparerò presto!”. E così Gianbabbeo diventò re, ebbe una sposa e una corona e sedette sul trono. L’abbiamo appena saputo dal giornale del caposcrivano ma di quello lì è meglio non fidarsi.