Dei sepolcri

Ugo Foscolo

Dei sepolcri

Leggiamo insieme: Dei sepolcri di Ugo Foscolo

A Ippolito Pindemonte
Deorum Manium iura sancta sunto

Parte I:
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l’obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ‘l compianto de’ templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo gl’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l’úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

Parte II:
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigïati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
cne tronca fe’ la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.

Parte III:
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
– Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’ invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtú greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzi si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Parte IV:
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: – E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama. –
Cosí orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio: e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: – Oh se mai d’Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.

 

Dei sepolcri

Parafrasi: Dei sepolcri di Ugo Foscolo

Parte I:
Forse il sonno eterno della morte è meno doloroso
qualora l’estinto riposi all’ombra dei cipressi
e dentro le urne confortate dal pianto di chi è rimasto? Quando
davanti ai miei occhi il Sole non feconderà più sulla terra per questa
bella popolazione di piante e di animali,
e quando davanti a me non danzeranno più le ore
future prodighe di promesse,
né sentirò più da te, dolce amico, la tua poesia
e l’armonia malinconica che la contraddistingue,
e non parleranno più al mio cuore lo spirito
delle vergini muse della poesia e dell’Amore,
unico conforto per la mia vita di esule,
quale consolazione sarà per i miei giorni perduti una tomba
che distingua le mie ossa dalle infinite ossa che
la morte sparge per terra e per mare?
È ben vero, Pindemonte! Anche la speranza,
ultima dea, abbandona i sepolcri; e l’oblio avvolge
tutte le cose nella sua eterna notte;
e una forza operosa le trasforma
in continuazione; e il tempo travolge
l’uomo, i suoi sepolcri, gli ultimi resti mortali dell’uomo
e ciò che resta di terra e cielo.
Ma perché l’uomo dovrebbe privarsi prima del tempo
dell’illusione che, una volta morto, tuttavia gli fa credere
di essere ancora fermo sulla soglia di Dite?
Forse non continua a vivere anche dopo la morte, quando
non gli trasmetterà più nulla l’armonia del giorno,
se può destare tale armonia nella mente dei suoi
con un dolce moto di pietà? Divina è
questa corrispondenza di sentimenti,
è dono divino per gli uomini; e spesso
grazie ad esso si continua a vivere in compagnia dell’amico defunto
e il defunto con noi, se la pietosa terra
che lo accolse neonato e che lo ha nutrito,
porgendo l’estremo asilo nel suo grembo materno,
renda inviolabili quelle reliquie dall’oltraggio
degli agenti atmosferici e dal piede profanatore
del volgo, e una lapide ne conservi il nome,
e un albero amico e profumato di fiori consoli
le ceneri con le sue carezzevoli ombre.
Solamente chi non lascia eredità di affetti
ha poca gioia nella tomba; e se solo immagina
la propria sepoltura, vede la propria anima
in mezzo al dolore dei luoghi infernali
oppure vede la sua anima rifugiarsi sotto le grandi ali
del perdono di Dio: ma affida le sue ceneri
alle ortiche di una terra abbandonata
dove non prega nessuna donna innamorata,
né alcun passeggero solitario ode il sospiro
che la Natura infonde a noi dalla tomba.
Tuttavia una nuova legge oggi prescrive
che i sepocri siano fuori dagli sguardi pietosi e non concede
ai morti il nome [sulla lapide]. E giace senza tomba
il tuo Sacerdote, o Talia, che poetando per te
coltivò con lungo amore un alloro
nella sua povera casa, e vi appese corone;
e tu, abbellendolo col tuo sorriso, ispiravi il suo canto
che satireggiava contro il giovin lombardo vizioso,
al quale piacque soltanto il muggito
dei suoi buoi che, situati nelle valli nei pressi dell’Adda
e del Ticino, gli consentono una vita di ozi e lussi.
O bella Musa, dove sei? Tra queste piante dove io siedo
e rammento sospiroso la casa materna
non sento spirare l’ambrosia, indizio della tua
presenza divina. Eppure tu venivi
e a lui sorridevi sotto quel tiglio
che ora con le sue fronde dimesse emette un fremito,
perché, o Dea, non copre [con la sua ombra] l’urna del vecchio,
verso il quale in passato era prodigo di serenità e di ombre.
Forse tu vagando tra i cimiteri destinati alla plebe vai
cercando dove riposi il sacro capo
del tuo Parini? La città piena di vizi, che attrae
cantanti castrati, non pose in suo onore alberi
tra le sue mura, né lapidi,
né iscrizioni; e forse il ladro che
solo sul patibolo abbandonò una vita di delitti
insanguina le sue ossa con la sua testa mozzata.
Senti raspare tra le macerie e le sterpi
la cagna abbandonata che vaga
sulle fosse e che ulula per la fame;
E l’upupa uscire dal teschio, dove fuggiva la luna,
e svolazzare attorno alle croci
sparse per il cimitero
e l’uccello immondo rimproverare con il suo grido
funereo i raggi che le stelle pietose
donano alle dimenticate sepolture. Inutilmente,
o dea, preghi che sul tuo poeta sgorghino rugiade
dalla notte cupa. Ahi! Non sorge alcun fiore
sugli estinti, qualora non sia onorato delle
lodi umane e di pianto affettuoso.

Parte II:
Dal giorno in cui nozze, tribunali e religione
fecero nascere negli uomini primitivi, che
[ancora] vivevano come bestie, la compassione
di se stessi e degli altri, i vivi sottraevano
alla corruzione degli agenti atmosferici e all’assalto
delle fiere i miseri resti che Natura destina,
con la sua eterna trasformazione, ad altra vita.
Le tombe erano la testimonianza delle glorie passate,
e altari per i figli; e da essi uscivano i responsi
dei numi tutelari della casa, e il giuramento
sulla polvere degli antenati fu rispettato:
culto che le virtù civili e la pietà per i congiunti
tramandarono per secoli con forme rituali differenti.
Non sempre le lapidi sepolcrali
fecero da pavimento alle chiese; né il lezzo dei cadaveri frammisto
all’odore dell’incenso contaminò i fedeli;
né le città furono rattristate
da immagini di scheletri: le madri
si svegliano durante i loro sonni terrorizzate e tendono
le loro braccia nude sull’amato capo
del loro caro neonato, cosicché non lo svegli
il gemito prolungato della persona morta
che chiede dal santuario agli eredi
le messe a pagamento. Ma cipressi e cedri,
impregnando l’aria di purissimi profumi,
protendendevano sulle tombe il verde perenne,
per un’eterna memoria, e vasi preziosi
raccoglievano le lacrime offerte in voto.
Gli amici rapivano una scintilla al Sole
per illuminare l’oscurità notturna del sepolcro
perché gli occhi dell’uomo che sta morendo
cercano il sole; e i loro petti, tutti,
rivolgono l’ultimo sospiro alla luce che si allontana.
Versando acque purificatrici, le fontane nutrivano
amaranti e viole sul tumulo;
e chi sedeva lì, a versare latte o
a raccontare le proprie sofferenze
ai cari estinti, poteva sentire un profumo intorno a sé
come quello che esala l’atmosfera dei beati Campi Elisi.
Pietosa follia che rende cari
alle giovani inglesi i giardini dei cimiteri
suburbani, presso i quali le conduce
l’amore per la madre morta, dove pregarono
i clementi numi tutelari della patria, perché facessero ritornare
il prode che troncò l’albero maestro
della nave vinta, e con quello si preparò la propria bara.
Ma dove la brama di imprese gloriose è spenta
e la ricchezza e la paura sono alla base
del vivere civile, cippi e monumenti
marmorei sono inutile ostentazione e
malaugurate immagini di Morte.
Il popolo dotto, ricco e nobile, decoro e guida
del bel regno Italico, ha già da vivo la sua sepoltura, nelle regge
che risuonano di adulazioni e non ha altro riconoscimento di lode
se non gli stemmi familiari. A noi la morte
prepari una dimora di quiete,
dove finalmente la sorte cessi
di perseguitarmi, e gli amici raccolgano
non un’eredità di tesori, ma di nobili sentimenti e l’esempio
di un canto poetico ispiratore di libertà.

Parte III:
Le tombe dei magnanimi spingono gli animi
nobili a grandi imprese, o Pindemonte;
e rendono agli occhi del forestiero bella e santa
la terra che le accoglie. Io quando vidi la tomba
dove riposa il corpo di quel grande
che, insegnando ai principi il buon governo,
lo priva delle sue parvenze di gloria, e svela alle genti
come esso si fondi sulle lacrime e sul sangue;
e la tomba di colui che a Roma innalzò
un nuovo Olimpo per gli dei; e quella di colui che
vide sotto la volta celeste ruotare
diversi pianeti, e il Sole illuminarli rimanendo immobile,
cosicché sgombrò per primo le vie del cielo
all’inglese che così largamente vi spaziò col suo ingegno.
Te beata, esclamai, per le arie rasserenanti
e piene di vita, per le acque
che dai suoi gioghi l’Appenino fa scendere a te!
La luna, rallegrata dalla tua aria tersa
riveste di una luce limpida i tuoi colli,
festosi durante la vendemmia, e le valli circostanti
popolate di case e di uliveti
mandano al cielo mille profumi di fiori.
E tu per prima, Firenze, hai udito il carme che
confortò lo sdegno del ghibellino esule,
e tu hai dato i genitori e la lingua a quel dolce
labbro di Calliope [Petrarca], che spiritualizzando
con un velo candidissimo l’Amore, che
tanto in Grecia quanto a Roma era cantato il modo sensuale,
lo restituì nel grembo di Venere celeste;
ma più beata ancora, perché adunate in un solo tempio
conservi le glorie italiane, le uniche forse
da quando le Alpi mal difese e il procedere alterno
della Storia delle sorti umane, volute dal destino,
ti privavano di armi, ricchezze, altari,
patria, di tutto fuorché la memoria.
Perché se un giorno una speranza di gloria
splenderà per gli Italiani più coraggiosi e per l’Italia,
noi da questi sepolcri trarremo l’ispirazione ad agire.
E a queste tombe venne spesso a cercare l’ispirazione Vittorio Alfieri,
adirato con i numi tutelari della patria; andava in silenzio
dove l’Arno è più solitario, contemplando
smanioso i campi e il cielo; ma poiché
nessun essere vivente placava il suo tormento,
qui quell’uomo austero trovava riposo; e sul volto aveva al contempo
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita in eterno: e i suoi resti
fremono di amor di patria. Ah, sì! Da quella religiosa
pace si sente provenire la voce di un nume:
e alimentò la virtù e il furore guerriero dei Greci
a Maratona contro i persiani, dove Atene
consacrò le tombe ai suoi eroi coraggiosi. Il navigante
che attraversò quel mare, costeggiando l’isola di Eubea,
vedeva attraverso l’immensa oscurità un balenio
d’elmi e di spade cozzanti, vedeva i roghi funebri
mandar fuori fuoco e vapore, vedeva
scintillanti armi di ferro e fantasmi di guerrieri
cercare la battaglia; e fra l’orrore della notte silenziosa
si diffondeva nei campi il tumulto
delle schiere combattenti, il suono delle trombe
e l’incalzare dei cavalli che accorrevano
scalpitanti sugli elmi dei moribondi,
il loro pianto, e i canti dei vincitori, e quello delle Parche.

Parte IV:
Felice te, Ippolito, che nella tua giovinezza
percorrevi il mar Egeo, regno libero dei venti!
E se il timoniere diresse la nave
oltre le isole egee, di certo sentisti
risuonare i lidi dell’Ellesponto
di antiche storie e rimbombare la marea portando
le armi di Achille al promontorio Reteo
sopra la tomba di Aiace: per i magnanimi
la morte è giusta dispensiera di glorie:
né l’astuta intelligenza, né il favore dei re
conservavano ad Ulisse, sovrano di Itaca, le
spoglie difficili [da ottenere], perché l’onda
incitata dagli dei infernali le strappò alla nave fuggiasca.
E me, che la malignità dei tempi e il desiderio di gloria
costringono a una vita di esule, tra gente straniera,
me le muse, suscitatrici del pensiero umano,
chiamano a evocare gli eroi.
Le muse Pimplee siedono a tutela dei sepolcri,
e quando il tempo, con le sue fredde ali,
vi distrugge persino le rovine, loro allietano
i deserti con il loro canto, e l’armonia supera
il silenzio di mille secoli.
E oggi nella Troade desolata risplende
ai viaggiatori un luogo eterno, reso tale
grazie alla ninfa [Elettra] che ebbe in sposo Giove
e che a Giove diede Dardano come figlio,
dal quale derivano Troia, Assaraco e i cinquanta
letti nunziali e il regno della popolazione da cui discende Iulo.
Eterno per il fatto che, quando Elettra udì la Parca
che la richiamava dalle vitali brezze del giorno
alle danze dell’Eliso, rivolse un’estrema
preghiera a Giove: “E – diceva – se ti furono gradite
le mie chiome, il mio viso e le dolci
notti trascorse insieme, e la volontà dei fati
non mi assegna premio migliore,
almeno proteggi dal cielo l’amante morta,
cosicché resti viva la fama della tua Elettra”.
Così pregando, moriva. E se ne doleva
Giove; e facendo un cenno col suo capo immortale
fece piovere dai suoi capelli ambrosia sulla ninfa
e rese sacro quel corpo e la sua tomba.
Qui fu sepolto Erittonio, e riposano
i resti del giusto Ilo; qui le donne troiane
scioglievano le chiome inutilmente, ahi! cercando
di scongiurare l’imminente fato dei loro mariti;
Qui venne Cassandra, quando il Nume (di Apollo),
le fece predire la fine di Troia,
e ai defunti cantava un canto pieno d’amore,
e lì vi guidava i nipoti, e insegnava quel
lamento amoroso ai giovinetti.
E sospirando diceva: “Oh se mai
il destino vi consentirà di tornare dalla Grecia,
dove nutrirete i cavalli del figlio di Tideo e del figlio di Laerte,
invano tornerete a cercare la vostra patria!
Le mura, opera di Apollo,
bruceranno sotto i loro stessi resti;
ma gli dei della patria avranno dimora
in queste tombe; perché è dono che possiedono gli dei
conservare una fama gloriosa pur nelle miserie.
E voi, palme e cipressi che piantano
le nuore di Priamo, crescerete, ahimè, rapidamente
bagnati dalle lacrime delle vedove.
Proteggete i miei padri: e colui che, pietosamente,
si asterrà dal colpire con la scure le vostre fronde consacrate,
si addolorerà meno per la perdita di persone care
e con mano pura potrà toccare gli altari divini.
Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete
un mendicante cieco vagare
sotto le vostre antichissime ombre, ed entrare nei loculi
brancolante, abbracciare le urne,
e interrogarle. I loro antri segreti gemeranno,
e le tombe narreranno di Ilio rasa al suolo
due volte e due volte risorta
splendidamente sulle vie che erano divenute mute,
per rendere più bella la vittoria finale
ai figli di Peleo, destinati dal fato [a distruggerla]. Il sacro poeta,
consolando col suo canto quelle anime afflitte,
renderà eterna, per tutte le terre che abbraccia il gran padre
Oceano, la fama dei principi achei.
E anche tu Ettore avrai onore di pianti,
dovunque sarà considerato santo e degno di commozione
il sangue versato per la patria, e finché il sole
illuminerà le esistenze sciagurate degli uomini.

 

Nota su: Dei sepolcri di Ugo Foscolo

Dei sepolcri è una poesia scritta da Ugo Foscolo nel 1806 e pubblicata l’anno successivo (1807).

Il testo fu composto dopo una conversazione avuta con Ippolito Pindemonte riguardante la sepoltura dei morti. Il testo infatti è proprio dedicato a Pindemonte.

L’Editto di Saint Cloud del 1804, infatti, aveva imposto che le sepolture avvenissero fuori dal centro abitato e, oltretutto, che le lapidi fossero tutte identiche tra loro.
Questo provvedimento aveva acceso un gran dibattito tra gli intellettuali del tempo, tra cui appunto Pindemonte (che scrisse I cimiteri) e Ugo Foscolo.

Il tema delle tombe, dei sepolcri è sempre stato caro a Ugo Foscolo che lo aveva già trattato in altre sue poesia, si pensi per esempio a: A Zacinto o In morte del fratello Giovanni.
Qui però il tema è arricchito e approfondito.

Ugo Foscolo ne Dei sepolcri illustra il suo pensiero e cioè che in questo mondo in continuo divenire, solo il sentimento (la corrispondenza d’amorosi sensi) è in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili.

Per contrastare il nulla eterno, il poeta contrappone un sistema di valori, illusioni, ideali, in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo. La tomba non è solo un luogo di affetti, ma permette la trasmissione di un intero patrimonio umano, attraverso il culto dei più grandi eroi della Storia.

Il senso per le tradizioni, la venerazione per i “grandi” del passato (come Parini e l’Alfieri), il culto della patria, il valore della poesia nel rendere eterni (connesso al ruolo del poeta civile), i miti dell’antichità classica, si fondono nell’ideale del Foscolo e la poesia ha il compito di renderli sempre attuali.

Queste tematiche nei versi Dei Sepolcri sono suvvisive abbastanza chiaramente.
Eccone la struttura:

  • Parte I: nei versi da 1 a 90: utilità delle tombe e dei riti funebri come legame tra vivi e defunti, ricordo delle imprese dei morti.
  • Parte II: nei versi da 91 a 150: descrizione dei vari riti funebri; sono esaltati i riti inglesi e quelli classici.
  • Parte III: nei versi da 151 a 212: significato privato e pubblico della morte; descrizione delle tombe dei grandi del passato presenti nella Chiesa di Santa Croce a Firenze.
  • Parte IV: nei versi da 213 a 295: valore della poesia che sa eternare le virtù molto più delle tombe, poiché rimane nella memoria e non si distrugge con il tempo.

 

Metrica Dei sepolcri: è un carme in endecasillabi sciolti. Spesso il poeta ricorre all’enjambement, che dilata molto la lunghezza del verso, facendo anche un’esasperata ricerca sulla disposizione degli accenti.

 

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