Incantesimo

Giovanni Prati

Incantesimo

Leggiamo insieme: Incantesimo di Giovanni Prati

La maga entro la rena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
m’ha tócco in sull’occipite
ed io mi veggio appena in questa forma.

Si picciolo mi fei
per arte della maga,
che in veritá potrei
nuotar sopra diáfane
ale di scarabei per l’aura vaga.

O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’essere altrui si novo,
si strano a me. Deh! fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.

Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sará mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.

E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;

e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filinguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;

noi, cinta in bianca vesta,
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.

E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.

I magi d’Asia han detto
che, quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.

Infatti, io sento Tonde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare

Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, a mo’ di freccia,
lá sbalza un’amadriade:
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.

Lampane graziose
giran la verde stanza;
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.

Del mondo ameno o tetro
coni’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
e né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?

Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
né il truculento mártoro
mi succhiella le polpe a mattutino?

Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra d’una siepe il mio pensiero.

O fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo;

o Azzarelina, in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei di brevi.

L’erbetta, ov’io m’ascondo,
so ch’è incantata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocondo in ch’è si bella.

So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.

Sien acque, o stelle, o venti,
dove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo; per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblio.

Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina,
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra d’un fiore.

Così la vita è un forte
licor ch’ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte;
e il mondo un gran fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.

Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.

Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo,
che la tua man descrive, a ciò non bada.

 

Immagine realizzata con Intelligenza Artificiale di Bing

 

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