Carbonella

C’era una volta una povera donna che aveva una bambina così bruna, da sembrare quasi una mora. La lavava quattro, cinque volte al giorno per tenerla pulita; ma la pelle della piccina, specialmente quella delle mani, trasudava un umor nero che lasciava l’impronta su qualunque cosa ella toccasse, ed era la disperazione di quella povera mamma.
Le vicine le avevano messo il nomignolo di Carbonella; e anche sua madre aveva finito per chiamarla a quel modo.
Carbonella, vispa e servizievole, si faceva voler bene da tutti. Non poteva però soffrire che gli altri bambini del vicinato la chiamassero così.
– Carbonella, vuoi giocare con noi?
– Ve la do io la carbonella.
Li rincorreva, e quando li aveva raggiunti, con una stropicciatina delle mani sul viso li impiastricciava di nero, in maniera da farli parere figli di carbonai.
Ed erano pianti, ed erano strilli; ma le mamme davano ragione a lei:
– Perché la chiamate Carbonella?
– E voialtre dunque? E la sua mamma dunque?
– Noialtre glielo diciamo per abitudine.
Infatti era così. Carbonella di qua! Carbonella di là!
– Perché insudici tutto, Carbonella?
– Per farvelo lavare più presto.
– Brava Carbonella. E perché ti arrabbi quando i ragazzi ti chiamano così?
– Perché la mamma mi lava quattro, cinque volte al giorno: e tutti quei ragazzacci sono più sporchi di me.
– Intanto la mamma non sapeva che mestiere farle apprendere, con quelle mani che lasciavano il segno su qualunque cosa toccassero.
– Figlia disgraziata! E come farai per campare quando io non ci sarò più?
– Il Signore mi aiuterà! – Quasi la povera donna prevedesse che doveva morir presto e lasciare nei guai la figliola che aveva appena sette anni.
Le vicine per qualche tempo le diedero da mangiare: oggi una, domani un’altra.
Povere anch’esse, vivevano stentatamente di lavoro ed erano cariche di figlioli.
Per il momento, una bocca di più non era di peso; e Carbonella, meschina, si contentava di quel po’ che le davano. Ma quando sarebbe cresciuta? Nutrirla non bastava; bisognava rivestirla, tenerla d’occhio; e con quel difetto d’insudiciar di nero ogni cosa che toccava, non le si poteva far fare nessun lavoro.
Ora che la mamma era morta, le vicine avevano ben altro a cui badare che a lavarla quattro, cinque volte al giorno; e perciò Carbonella era divenuta, come dicevano, più Carbonella di prima.
Se ne stava accoccolata davanti all’uscio della sua catapecchia, coi gomiti sui ginocchi, col mento fra le mani, e guardava le nuvole che passavano per il cielo, spinte dal vento.
– Me ne vorrei andare per il mondo come loro!
Fantasticava così; le invidiava.
– Che stai a guardare, Carbonella? Le mosche che volano?
– Non so: guardo le nuvole! Dove vanno?
– Dove le porta il vento, lontano.
– Voglio andarmene con loro.
E una mattina, chiama, cerca Carbonella… era andata via, era sparita, senza dir niente a nessuno.
– Povera Carbonella! Chi sa a quest’ora dov’è!
Carbonella aveva raccolto quei pochi stracci che costituivano tutta la sua ricchezza, ne aveva fatto un fagottino e, presa la via dei campi, era andata avanti avanti senza sapere dove e perchè andasse.
Aveva sentito dire più volte: “Il tale, la tale, hanno incontrato la Fortuna” e si era immaginata che la fortuna corresse in giro per il mondo. Poteva incontrarla anche lei. E perciò quel giorno, imbattendosi in qualche donna, vecchia o giovane, le domandava ingenuamente:
– Siete voi la Fortuna?
Tutte la guardavano stupite della domanda, e non rispondevano nemmeno; tiravano via, crollando il capo; la credevano una scema.
Verso sera incontrò una carrozza tirata da due focosi cavalli, riccamente bardati. Una bella signora era quasi sdraiata sui cuscini; passava di corsa.
– Signora, bella signora!
Al grido, la signora fece fermare la carrozza e attese che quella ragazza, così bruna da sembrare una mora, vestita poveramente, e con quel fagottino sotto braccio, le si fosse avvicinata.
– Signora, bella signora, siete voi la Fortuna?
La donna crollò il capo, e fece cenno al cocchiere di riprendere la corsa.
Era già notte, quando Carbonella, atterrita di trovarsi così sola in piena campagna, vide apparire in un lato della strada una fiammolina azzurra che errava, sobbalzando, e non si fermava mai. Si mise a inseguirla; ma appena le era vicina e già tendeva la mano per afferrarla, la fiammolina dava un balzo e si allontanava con bizzarro movimento di altalena. Carbonella aveva dimenticato la stanchezza, la fame che le mordeva lo stomaco e inseguiva, inseguiva la fiammolina. Le era balenato alla mente che potesse essere la Fortuna.
– Fiammolina, fiammolina azzurra! Se sei la Fortuna, lasciati afferrare!
Ah! Non era la Fortuna, giacché continuava ad errare, con quel bizzarro movimento d’altalena, e non si lasciava raggiungere.
Tutt’a un tratto, la vide fermarsi e sparire, e si accorse di essere arrivata davanti all’uscio di una povera casetta di campagna.
Si fece coraggio e bussò. Non rispose nessuno. Attese un po’e tornò a bussare.
Non rispose nessuno.
– Fiammolina, fiammolina azzurra, mi hai dunque ingannata?
E tornò a bussare per la terza volta. Si udì una voce rauca, di persona ingrugnita:
– Chi picchia? Chi cercate?
– Sono io, sono Carbonella; chiedo ricovero per questa notte.
– Carbonella? Non sono fornaia; avete sbagliato uscio.
– Datemi almeno una fetta di pane: muoio dalla fame!
Dalle fessure dell’uscio Carbonella si accorse che là dentro avevano acceso un lume, e dal rumore degli zoccoli e dal brontolio della voce rauca capì che qualcuno veniva ad aprirle.
L’uscio scricchiolò ed apparve sulla soglia una vecchia curva, grinzosa, coi bianchi capelli arruffati e gli occhi insonnoliti.
– Chi sei? È questa l’ora di rompere il sonno alle persone?
– Scusate, buona donna; mi ha guidato fino a qui una bella fiammolina azzurra.
Mi ero sperduta per la campagna.
– Ti chiami Carbonella? Sei carbonella davvero.
E le fece una carezza sui capelli.
Le dette da mangiare, brontolando sempre, ma Carbonella non capiva le parole.
La cameretta era affumicata, con pochi e rozzi arnesi, e per letto c’era un giaciglio di paglia dove poteva sdraiarsi una sola persona.
Carbonella aveva sulla punta della lingua la domanda: “Siete voi la Fortuna?” Ma vedendo tutta quella miseria, si trattenne.
Quale non fu però il suo sbalordimento, quando la vecchia, preso il lume in mano, le disse:
– Ed ora, figliola mia, andiamo a dormire.
Spinse una porticina della parete di fondo, così affumicata anche quella che Carbonella non se n’era avveduta… e la povera ragazza, dallo stupore della sorpresa, sentì mancarsi il respiro.
Una fila di stanze, una più bella dell’altra, illuminate da una dolce luce azzurrognola, che non si capiva d’onde venisse; stucchi, fregi dorati, tappeti morbidissimi per terra, specchi alle pareti; e vasi con belle piante e bellissimi fiori. La vecchia andava avanti, curva, coi bianchi capelli arruffati, che a quella luce parevano d’argento, e non si voltava per vedere se Carbonella la seguisse. “Questa è proprio la Fortuna” ripeteva dentro di sé la ragazza.
Erano entrate in una camera con un letto col baldacchino. Coperta bianchissima, lenzuola e guanciale che abbagliavano. Doveva dormire la? Ah, povera lei! Avrebbe insudiciato ogni cosa.
– Tu qui; io dormirò di la, nella camera accanto.
– Ah, no, signora! Voi non sapete! Mi hanno chiamato Carbonella anche perchè ho la disgrazia di macchiar di nero tutto quel che tocco! Dormirò sulla paglia della prima stanza!… Siete voi la Fortuna, buona signora? Non poté più trattenersi dal domandarglielo.
– Dormi, e non curarti d’altro!
E la lasciò sola, sbigottita.
La mattina dopo, svegliandosi, Carbonella si trovò distesa sulla paglia della stanza affumicata, col suo fagottino per guanciale. Aveva sognato? Non arrivava a persuadersene.
E sentiva di nuovo, sulla punta della lingua, la domanda: “Siete voi la Fortuna?” Ma rammentava – oh, non aveva sognato! – di avergliela già fatta la sera avanti; e colei le aveva risposto: “Dormi e non curarti d’altro!” segno evidente che non era la Fortuna, o che non voleva darsi a conoscere.
– Ed ora dove andrai?
– Dove mi portano i piedi, alla ventura. Se potessi incontrare la Fortuna!
L’hanno incontrata tanti, dicono; essa sola potrebbe aiutarmi.
– Ah, figliola mia! La Fortuna e capricciosa: oggi dà, domani toglie; dà senza discernimento, toglie allo stesso modo: è una pazza. Se la incontri, non guardarla neppure in viso; da’ retta a me.
– Ma come faccio, col difetto di insudiciar di nero quel che tocco?
– Per questo c’è rimedio. Non avere schifo. Ficca le mani in questo mucchio di letame, e tiencele finché potrai sopportare il bruciore che sentirai.
Carbonella esitò un momento, e poi affondò le mani nel letame. Cominciò a provare un lieve calore che andò sempre più aumentando.
– Ahi! Ahi!
– Non è niente, Carbonella; sopporta ancora. Pazienza!
Le pareva di aver le mani tra la brace; si contorceva, ma l’idea di guarire di quel difetto le dava forza e coraggio.
– Ahi! Ahi!
Le ritrasse. Sembravano carbonizzate: erano più nere di prima, ma non le bruciavano più.
Toccò un panno… e vi lasciò una macchia non nera, ma gialliccia scura, del colore del letame. Valeva la pena di essersi lasciate bruciare le mani a quel modo! O nero o gialliccio, quelle sue mani disgraziate macchiavano sempre!
– Perchè mi avete ingannata?
– Non ti ho ingannata, vedrai!
Carbonella finse di crederle. Chi sa? Quella brutta vecchia poteva farle qualche male peggiore! La ringraziò e andò via; avanti, avanti, per la campagna, alla ventura, poverina!
Pensava che la vecchia le aveva detto:
– Se incontri la Fortuna non guardarla neppure in viso!
Altro che guardarla in viso, se l’avesse incontrata! Le si sarebbe afferrata alla gonna e non l’avrebbe lasciata, se non ne avesse ricevuto i più ricchi doni.
E perciò imbattendosi in qualche donna, vecchia o giovane, la fermava:
– Siete voi la Fortuna?
Tutte la guardavano stupite della domanda, e non rispondevano nemmeno: tiravano via, crollando il capo; la credevano una scema.
Giunse in riva a un fiume. Sull’erba erano sciorinati al sole tanti panni di bucato, e non c’era nessuno che li guardasse. Carbonella pensò di lavarsi le mani con l’acqua corrente, e più le strofinava e più l’acqua s’intorbidava col colore gialliccio scuro del letame; se non che, col sole, quel colore luccicava come l’oro.
Visto che a guardia dei panni non c’era nessuno, ne prese uno, il primo che le capitò davanti, e si asciugò le mani. Purtroppo, vi restavano tante impronte giallicce, impronte delle mani in varie pose, cosi nette e cosi precise che sembravano dipinte.
Tornò a lavarsele, a stropicciarle forte: l’acqua s’intorbidava col colore gialliccio scuro del letame; se non che, anche questa volta, col sole, quel colore luccicava come l’oro. Era inutile. E prese un altro panno (sembrava una camiciona) e vi si asciugò le mani. Purtroppo, tante impronte di mani, ma così nette e precise che sembravano dipinte.
Stava per sciorinarlo nuovamente sull’erba, quando accorsero da più parti i guardiani.
– Ah, scellerata! Che cosa hai fatto? Hai macchiato la biancheria della famiglia reale!
Tentò di scappare; ma quelli la raggiunsero, l’afferrarono, la legarono con le mani dietro la schiena, e la trascinarono, piangente, mezza viva e mezza morta, al cospetto del Re.
– Perché hai fatto questo?
– Maestà, perdonatemi, lo non sapevo… Se avessi saputo, Maestà…
E il pianto le impediva di parlare.
Il Re si convinse che una ragazzina di quell’età non poteva aver voluto recare sfregio al bucato reale, e ordinò che la mettessero in libertà.
– Si rifaccia il bucato. La colpa è tutta vostra, che non avete fatto buona guardia.
A Carbonella non parve vero di essere rilasciata senza nessun castigo, e prese di nuovo per la campagna, alla ventura, lusingandosi sempre che, un giorno o l’altro, avrebbe incontrato la Fortuna.
Le lavandaie rifecero il bucato, ma le impronte delle mani non andarono via; e quando i panni furono asciutti, quelle impronte scure erano diventate luccicanti quasi fossero state d’oro.
Il Re, la Regina e il Reuccio vollero vedere e rimasero sbalorditi; erano infatti impronte d’oro.
Il Reuccio più di tutti le guardava estasiato.
– Ah! queste mani! Le più piccole, le più belle manine del mondo.
Era proprio così!
Quel camicione sembrava ornato di finissimi ricami di lamine d’oro. Le impronte erano così nette, e così ben modellate, che vi si scorgevano i più minuti solchi della pelle.
– Ah! quelle mani! Le più piccole, le più belle manine del mondo!
E da quel giorno in poi, il Reuccio fu colpito dalla fissazione di voler vedere colei che possedeva le più piccole e le più belle manine del mondo.
Invano il Re gli diceva:
– È una ragazza nera, cenciosa, sudicia da far rivoltare lo stomaco. L’ho vista io; e quelle mani che qui sembrano una meraviglia, hanno la pelle abbruciacchiata!…
– Ah! quelle mani! Le più piccole, le più belle manine del mondo!
La fissazione del Reuccio aumentava di giorno in giorno, quasi gli avessero fatto una malia.
Allora il Re, per amore del figlio, spedì parecchi corrieri alla ricerca di quella ragazza. Colui che per primo la trovava e la conduceva al palazzo reale, avrebbe potuto chiedere qualunque grazia; gli sarebbe stata concessa.
Trascorsero due settimane senza nessuna notizia di Carbonella. Chi l’aveva vista in un posto, chi in un altro: “Ieri è passata di qua; oggi e passata di là; ha preso questo sentiero; si è addentrata in quel bosco”. Ma corri, cerca, fruga, nessun segno di Carbonella.
E la fissazione del Reuccio aumentava sempre più, quasi gli avessero fatto una malia.
Finalmente, giunge un corriere e dice:
– Maestà, la ragazza è trovata. È a servizio da certi padroni che, per rilasciarla, non solamente vogliono un ordine scritto di pugno del Re, ma che Sua Maestà prenda impegno di rimandargliela in casa tra due giorni, al più tardi.
Il Re montò in furia:
– Ah! sì? Un ordine scritto di pugno di Sua Maestà? Andate e trascinateli qui, legati alle code dei vostri cavalli. La ragazza invece la condurrete in lettiga.
E così Carbonella ricomparve di nuovo in presenza del Re.
Era più nera, più sciatta che mai, carbonella addirittura; ma vispa e tranquilla, perchè sapeva di non aver fatto, questa volta, niente di male.
La tremarella l’avevano addosso i suoi padroni, trascinati fino al palazzo regale legati alle code dei cavalli.
– Perchè non volevate lasciar venire la ragazza?
– Perdono, Maestà; avevamo un patto con lei: mangiare, bere e vestire, e doveva servirci per dieci anni.
– Come mai questo patto?
– Per carità di lei, Maestà.
– Infatti è così ben nutrita, e così ben vestita, che sembra una stracciona morta di fame! E che servigi doveva fare?
– Quasi niente, Maestà. Lavava i panni, ripuliva…
Erano impacciati; non dicevano la verità; quel che la ragazza toccava, bagnato sembrava macchiato di giallo scuro; asciutto, luccicava come coperto d’oro; ed era oro davvero. Volevano arricchirsi, facendola sfacchinare da mattina a sera; la ragazza ignorava la virtù delle sue mani.
– Per ora, andate in carcere. Al patto dei dieci anni ci penseremo poi!
Il Re e la Regina, vedendo Carbonella cosi mal ridotta e con quelle mani che sembravano bruciacchiate, furono molto contenti; la fissazione del Reuccio sarebbe subito sparita.
– Come ti chiami?
– Non lo so; mi dicono Carbonella: anche mia madre mi chiamava così. È morta; non ho più nessuno al mondo.
– E perché vai di qua e di là?
– Voglio incontrare la Fortuna. L’hanno incontrata parecchi, ho sentito dire. Chi sa che non la incontri anch’io!
– E che vorresti dalla Fortuna?
– Quel che le piacerebbe di darmi.
Re e Regina si guardarono in viso, stupiti di tali risposte. La Regina disse al Re sottovoce:
– Costei, Maestà, ha qualche cosa che non mi piace.
– Dite bene, Regina: qualcosa che non piace neppure a me.
– Che sia una strega?
– Può darsi. Lo scopriremo subito. Facciamo chiamare il Reuccio.
– Alla vista di Carbonella, il Reuccio indietreggiò nauseato.
– Ecco qui, Reuccio, quelle che voi credete le più piccole e le più belle manine del mondo!
– Per piccole, erano piccole, ma belle, no davvero!
Egli la guardava, poco convinto che le impressioni lasciate sui panni provenissero proprio da esse.
– Fammi vedere! Fammi vedere!
Carbonella tese le mani, voltandole e rivoltandole, perchè il Reuccio le osservasse bene.
– Chi te le ha bruciacchiate?
– Nessuno. Dapprima macchiavo di nero tutto quel che toccavo; era una gran disgrazia. Una vecchia mi disse: “Ficcale in quel mucchio di letame, e tienicele finché potrai.” Quel letame scottava, e perciò le mie mani sono così bruciacchiate.
Ora invece macchio di giallo scuro tutto quel che tocco; è un’altra grave disgrazia!
Il Reuccio le guardava con ripugnanza, poco convinto che le impronte lasciate sui panni provenissero proprio da esse.
– Lasciatemi vedere! Lasciatemi vedere!
Carbonella, ridendo, tendeva le mani, voltandole e rivoltandole, perché il Reuccio potesse osservarle meglio.
– No, no, no? Non sono queste! Vi fate beffa di me!
Il Reuccio, singhiozzando e piangendo, uscì dalla sala.
– Scellerata! Scellerata! Che malia hai fatto al Reuccio?
– Ti faremo bruciar viva, se non sciogli la malia!
Carbonella, alle parole della Regina e alla minaccia del Re, cominciò a tremare come una foglia, e non sapeva che cosa rispondere.
– Ti do tempo tre giorni! E intanto vai in carcere anche tu.
Il Reuccio smaniava più che mai:
– Ah, quelle mani! Le più piccole e le più belle del mondo!
– Che vorreste farvene, Reuccio?
– Voglio sposare chi le possiede!
– Vorreste sposare Carbonella?
– Non e lei, Maestà. Vi fate beffa di me?
– Non c’è dubbio – disse il Re. – Qui si tratta di malia.
Carbonella, in fondo al carcere, non si lamentava, non piangeva. Di tratto in tratto solamente si metteva a chiamare:
– Fortuna, Fortuna! Se tu passassi da queste parti!
La Fortuna doveva essere troppo lontana, se non accorreva alla chiamata di lei.
Il Re, tre, quattro volte al giorno, se la faceva condurre.
– Carbonella, hai riflettuto? Vuoi sciogliere la malia?
– Ma che malia, Maestà? La trista malia è la disgrazia che mi perseguita.
– Hai tempo un altro giorno. Rifletti bene, Carbonella.
E Carbonella, tornata nella buia stanzuccia della sua prigione, non si lamentava, ne piangeva. Di tratto in tratto solamente riprendeva a chiamare.
– Fortuna, Fortuna, se tu passassi da queste parti!
La Fortuna doveva essere molto lontana, se neppure questa volta era accorsa alla chiamata di lei.
Il giorno dopo fu condotta di nuovo alla presenza del Re.
– Carbonella, hai riflettuto? Vuoi sciogliere la malia?
– Ma che malia, Maestà! La trista malia…
Il Re non la fece finir di parlare:
– Hai tempo poche ore, Carbonella; sarai bruciata viva domani.
Il Reuccio non sentiva ragione, smaniava più che mai.
– Ah, quelle mani! Le più piccole e le più belle del mondo! Voglio trovare chi le possiede! Chi le possiede voglio sposarla.
– Sono quelle di Carbonella, Reuccio! Vorreste sposare Carbonella, figlio mio?
– No, no, no, Maestà! Vi fate beffa di me!
La corte pareva in lutto per questa fissazione del Reuccio.
– Maestà, ho pensato questo, – disse il ministro. – Facciamo fare a Carbonella quella impronta sotto gli occhi del Reuccio. Così non potrà più credere che ci beffiamo di lui. E Carbonella è così nera, così sciatta ed ha le mani così bruciacchiate, che il Reuccio certamente avrà disdegno a sposarla.
Questo suggerimento del ministro parve molto savio a Sua Maestà. Come non era venuto in mente alla Regina né a lui?
Prepararono un catino con acqua, vi immersero un panno di tela finissima, e Carbonella venne condotta davanti al Re, alla Regina, al Reuccio e a tutte le persone di corte.
– Carbonella, hai riflettuto? Vuoi sciogliere la malia?
– Ma che malia, Maestà! La trista malia e la disgrazia che mi perseguita!
– Sarai bruciata viva oggi stesso. Intanto leva questo panno dal catino e strizzalo bene.
L’acqua s’intorbidò, diventò di color giallo scuro; ed ecco che nel panno strizzato si vedevano parecchie impronte delle mani di Carbonella dello stesso colore dell’acqua; qua intere, là delle sole dita, là delle palme con qualche falange di dito, secondo che potevano imprimersi strizzando.
Tutti stavano a guardare, stupiti, e più di tutti il Reuccio. A Carbonella quelle impronte sembravano cosa ovvia e naturale.
Sciorinarono quel panno al sole, e, a mano a mano che si asciugava, le impronte risultavano come fatte di meraviglioso ricamo in lamine d’oro finissimo. Quasi una Fata si fosse divertita a far parecchie prove e, qua e la, lasciarle incompiute.
Tutti guardavano il Reuccio che sembrava diventato di sasso. Sembrava di sasso anche Carbonella, che vedeva, per la prima volta, mutarsi in oro le macchie gialle lasciate sugli oggetti dalle sue mani. Per questo quei padroni nascondevano subito le cose appena macchiate di giallo!
Tutt’a un tratto, grande scompiglio. Il Reuccio cominciò ad agitar le braccia, a stralunare gli occhi:
– Largo! Largo! Scostatevi!
E ributtava indietro Re, Regina, persone di corte.
– Largo! Largo! Scostatevi! E tu, Carbonella, non ti muovere di lì! Fermi tutti; attendete!
Si era fatto un gran cerchio attorno a Carbonella, che rimaneva ritta nel mezzo, con gli occhi sbalorditi e con un doloroso sorriso sulle labbra.
Nessuno osava muoversi, aspettando che il Reuccio, uscito precipitosamente dalla sala, ritornasse.
E fu un urlo di tutti vedendolo ricomparire con una fiaccola accesa in mano, correre verso Carbonella e appiccarle il fuoco alla veste.
Quasi fosse stata di vera carbonella, la poverina sprigionò una vampata da capo a piedi, senza un grido, senza un atto di scampo. Solamente, nascose il viso con le braccia e rimase in piedi, avvolta dalle fiamme scoppiettanti.
– Ah, Reuccio! Che cosa avete fatto, Reuccio!
– Era Carbonella, Maestà; bisognava bruciarla!
Le fiamme diminuirono, lingueggiarono un po’, si estinsero. E dopo un po’ si vide ritta in mezzo alla sala una forma umana, coperta di cenere, che sembrava una statua.
– Ah, Reuccio! Che cosa avete fatto!
– Era Carbonella, ora e cenere! Tanto meglio, Maestà.
Ma ecco: la statua viene presa da un lieve tremito che si accresce, si accresce, e fa cascar giù la cenere da ogni parte: ed ecco apparire una bellissima figura di donna, bianca, rosea, con capigliatura d’oro, ma che conserva intatti nel viso i lineamenti di Carbonella. Abbassate lentamente le braccia, apre gli occhi, quasi si destasse da un profondissimo sonno, sorride e tende le mani al Reuccio.
– Oh, le più piccole e le più belle mani del mondo!
E il Reuccio, caduto in ginocchio davanti a lei, gliele baciava e ribaciava.
Carbonella, diventata Reginotta, chiese la grazia per i suoi padroni che erano in carcere. Ma le sue mani non macchiavano più gli oggetti toccati.
E qui la fiaba finisce.

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