Gian Carlo

Renato Fucini

Tratta da: Il Ciuco di Melesecche, storielline in prosa e in versi - Einaudi (1922)

Leggiamo insieme: Gian Carlo di Renato Fucini

I.

Gian Carlo era un onesto cittadino
negoziante di stoffe e liberale;
membro del Trinkensvaine di Dublino
e maggior della Guardia Nazionale.

Così la moglie un giorno a lui parlò:
“Domani son dieci anni che il buon Dio,
su dal Cielo, di noi si ricordò,
unendo in Terra il tuo destino al mio.

E non mai, fino a qui, mio buon Gian Carlo,
di quel bel giorno ci siam ricordati:
se vuoi, doman potremmo festeggiarlo
con una corsa e un pranzo in mezzo ai prati.

Io proporrei così: la mia sorella
col suo bambino, io, Margherita e Lallo
si monterebbe in una carrettella;
tu potresti venir dietro, a cavallo”.

Le rispose Gian Carlo: “Amica mia,
non mai dissenso fra di noi ci fu;
buona è l’idea, buona è la compagnia,
e si farà com’hai proposto tu.

Son negoziante di tessuti, e godo
fama d’onesto in tutta la città;
il mio socio ha un cavallo, è un uomo a modo:
se glielo chiedo, me lo presterà”.

E la sposina: “Grazie, o buon Gian Carlo.
Anzi, per risparmiare anche sul vino,
io prenderei del nostro; e, per portarlo,
si lega dietro al legno, in un cestino”.

Pieno di giusto orgoglio e di contento,
lodò Gian Carlo la sua brava sposa
che, anche pensando ad un divertimento,
si mostrava sì saggia e risparmiosa.

Il giorno dopo, a bubboli sonanti,
arrivò la carrozza, e fu ordinato
che andasse ad aspettarli un po’ più avanti,
per non dare nell’occhio al vicinato.

Così fu fatto; e appena accomodata
dentro, la gongolante comitiva,
“Via!” Strideva schizzando l’imbrecciata,
e i bambini gridavan: “Viva, viva!”.

Gian Carlo, ch’era pronto a dar di sprone,
volse gli occhi al negozio, e vide fuori
una carrozza ferma e tre persone
che avean l’aspetto d’esser tre avventori.

Il perder tempo gli doleva, ma
il perder soldi gli dolea di più.
“Scendo? Parto?” pensava “Che si fa?”.
L’interesse la vinse, e scese giù.

A monti a monti i rotoli calavano…
ma… giurammo, che razza di clienti!
Prendevano, tastavano, posavano…
non c’era verso di farli contenti.

E Bettina gridava dalle scale:
“Signor padrone, hanno scordato il vino!”.
E Gian Carlo: “Fa’ presto, è poco male.
Anch’io m’ero scordato del frustino.

Porta giù tutto, subito, Bettina;
e quel vino maneggialo con cura.
Portami insieme anche una cordellina
per legar le bottiglie, alla cintura”.

Quando tutto fu pronto alla partenza
tornò in sella Gian Carlo, agile e snello;
quindi, a scanso di reumi e d’influenza,
s’avviluppò nel suo largo mantello,

e si mise in cammino. Era prudente
il buon Gian Carlo, e, per la via scabrosa,
serrava il freno; ma il puledro ardente
scuotea spavaldo la bocca spumosa.

Così gli accadde che frenando troppo,
senza averci né garbo né maniera,
prima, il cavallo gli levò il galoppo,
poi disperato si buttò in carriera.

Misericordia! Il vino salta e dondola,
l’ampio mantello sibilando sventola,
vola il cappello, lo spadino ciondola,
frullan le staffe, la gualdrappa sbrendola…

Avvinto al collo del puledro e macolo,
con la voce Gian Carlo l’accarezza;
ma pensa che oramai, fuor d’un miracolo,
per lui non v’è speranza di salvezza.

E il puledro, sentendosi abbracciato
con tanto amore e sì tenacemente
che mai più strinto non s’era trovato,
più e più correa, vertiginosamente.

E intanto ecco che via vola il mantello
a rincorrer per aria la parrucca
che, alla sua volta, rincorre il cappello,
lasciando nuda la pelata zucca.

Al trapassar di simile tempesta,
s’alzan grida, i balconi si spalancano,
chi dice: “Bravo!”, chi stordito resta;
altri a scansarsi per la via s’arrancano.

E, dietro a lui: branchi di cani ansanti
e urlanti, a lingua fuori, inveleniti;
paperi in fuga, bambini strillanti,
mamme svenute e babbi inorriditi.

Alla barriera, udendo quel fracasso,
corrono i gabellotti ai chiavistelli
e, pensando a lasciar libero il passo,
prontamente spalancano i cancelli.

“Chi sia? che mai sarà?” dicea la gente,
appena in quiete si fu un po’ rimessa.
“Qui non se n’esce; o quell’uomo è un demente,
oppur c’è sotto una forte scommessa!”.

Gian Carlo corre. Le bottiglie intanto,
come campane sbatacchiate a doppio,
oscillano… Gran Dio! s’ode uno schianto
sulle sue spalle curve, indi uno scoppio.

E, dai due recipienti urtati e rotti,
schizza il vino inondandogli la schiena;
e di lì, traboccando a larghi fiotti,
bagna il cavallo e piove sulla rena.

Così, sempre in procinto d’un macello,
sempre vedendo innanzi a sé la morte,
giunse dentro le case d’un paesello
dove ansiosi attendeanlo: la consorte,

i figli, il nipotino e la cognata,
che, dal balcone d’una trattoria,
gridavan tutti, a gargàna spiegata:
“Babbo! Fratello! Zio! Anima mia,

il pranzo è pronto!… Guarda, siam quassú.
Ferma, babbino! Ferma, ferma, zio!
Abbiamo fame, non se ne può più!…”.
Lui, travolto, passando: “Anch’io, anch’io!”.

Ora è bene saper che assai lontano,
quattro miglia più là di quel borghetto,
avea, nel mezzo a un florido altipiano,
il padron del cavallo un poderetto.

E a quel podere il testardo animale
s’è piccato d’andare; ed ogni prova
perché svolti o si fermi, a nulla vale;
stringerlo ai fianchi e urlare a nulla giova.

Mentre il cavallo fumante e sudato
passa, trabalza e va come saetta,
mi fermo un po’ perché sono arrivato
alla metà della mia canzonetta.

II.

Gian Carlo, ora furente, ora allibito,
contro sua voglia sballottato andò
fin là dove il caval, con un nitrito,
ansimando e fiutando, si fermò.

L’amico, ch’era lì, corse al cancello
domandando: “Gian Carlo, che è seguito?!
O la parrucca? o il pastrano? o il cappello?
o quelle chiose rosse sul vestito?!

Ma… dimmi un po’, Gian Carlo… o la signora?
Spiegati, via, mio Gian Carluccio amato;
perché ti vedo qui, mentre a quest’ora…?
Parla, Gian Carlo, parla: cos’è stato?”.

Fermo il cavallo e salva la sua pelle,
tornò Gian Carlo allegro e sorridente,
e all’amico ansioso di novelle:
“Niente,” rispose, “niente, proprio niente.

La cosa sta così: secondo me,
sapendo, il tuo cavallo, che eri qua…
Fermati, aspetta, senti dico a te!…”.
L’amico non risponde e se ne va.

E se ne va perché, al veder Gian Carlo
fermo, sudato e mezzo nudo al vento,
dice: “È meglio pensare a ripararlo”,
e va in casa e ritorna nel momento;

e porta un bel cappello e una parrucca
che presenta sollecito al compare.
Gian Carlo se li pianta sulla zucca,
e: “Mi son larghi, ma possono stare!

Grazie”. L’amico nel veder Gian Carlo
tutto pien di sudore e polveroso,
si mise a ripulirlo e a spazzolarlo;
poi disse cordialmente premuroso:

“Amico, tu devi avere appetito;
far complimenti, qui, non mette conto.
Or che sei raffrescato e ripulito,
scendi e vieni a mangiare; il pranzo è pronto”.

“Grazie, non posso. E sai? mi tirerebbe
quest’odor di polenta co’ i osei!
Ma la consorte, amico, che direbbe
se oggi non fossi a desinar con lei?”.

E voltava il cavallo, pian pianino,
quando un imprudentissimo ciuchetto
ch’era sciolto in pastura lì vicino,
mise fuori un tal raglio maledetto,

che il cavallo, a quell’urlo sgangherato,
prende ombra, soffia, arruffa la criniera,
e, sulla via già fatta, spaventato,
torna, peggio di dianzi, alla carriera.

Quando la sposa sua, ch’era in vedetta,
da lontano lo scòrse riapparire
e passare e andar via come saetta,
perse la testa e non sapea che dire.

E voltasi angosciata a un giovinetto
che la guarda e, anche lui, pensa e sospira:
“Corrigli dietro, va’, corri, t’aspetto…
Se lo riporti qui, ti do una lira”.

Il giovinetto va, quasi volando
e, dopo un miglio, riscontra Gian Carlo
che ritornava indietro turbinando;
e, temerario, si prova a fermarlo.

Ma inutilmente apre le braccia e grida;
inutilmente al furioso destriero
tenta afferrare una volante guida…
Balza, il cavallo, e va come il pensiero.

E dietro a lui, giù per l’aperto piano,
si foga anche il caval d’un postiglione;
e, in pochi istanti, lontano lontano,
spariscono in un denso polverone.

Sei signori che insieme erano a spasso
contemplando la florida campagna,
nel veder, con tant’impeto e fracasso,
un uom correr d’un altro alle calcagna:

“Corri! Agguantalo! Al ladro! All’assassino!”,
dietro a Gian Carlo gridavano in coro;
e altra gente, via via, lungo il cammino,
sentendo urlare, urlava più di loro.

Così andò, ritornò, di nuovo andò;
poi tornò nuovamente alla barriera.
E ripassò e passò, poi ripassò,
senza rallentar mai, sempre in carriera.

Tanto che tutti ormai, lungo la via,
certi d’una scommessa di valore,
avean preso Gian Carlo in simpatia
e, al passar, l’acclamavan vincitore.

Ah, nessuno sapea che là, lontano,
torno torno a una mensa rassegnata,
stavan piangendo ed aspettando invano:
tre bambini, una moglie e una cognata!

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