Gli occhiali della Peppina
Anna Vivarelli
Chi si ricorda della Peppina
che si ostinava a fare il caffè?
Lo preparava così puzzolente
che tutti quanti bevevano tè:
tè a colazione insieme al latte,
con i biscotti, le paste e i babà.
La permalosa signora Peppina
era padrona dell’unico bar.
Tutto il paese sognava di notte
un buon caffè dall’aroma fragrante,
ma la Peppina miope e distratta
ci mescolava l’acqua stagnante.
Tappi di latta, palle da tennis,
vecchi biglietti di lotteria:
nella tazzina potevi trovare
quasi ogni sorta di chincaglieria.
Ed ogni volta che la Peppina
con volto arcigno faceva il caffè
c’era qualcuno che in giro chiedeva:
Ma il mio berretto nuovo dov’è?
Povera cara vecchia Peppina,
perché non smetti di fare il caffè?
Meglio sarebbe coi ferri e la lana
fare calzini, maglioni, gilè.
Di tanto in tanto qualcuno sbottava:
forse ho trovato la soluzione!
Perché non dirle con garbo e con grazia
che è giunta l’ora della pensione?
Ma la Peppina sorda e testarda
non ascoltava i buoni consigli
e nel suo bar sulla piazza centrale
serviva a tutti i suoi orridi intrugli.
Finché in paese giunse un dottore
che da oculista aveva studiato.
Per prima cosa nel bar fu condotto
e un bel caffè gli fu tosto ordinato.
“Bleah! Ma che schifo! Cos’è questa puzza?”
disse sputando una vecchia maniglia
ed una foto molto ingiallita
della Peppina ritratta a Siviglia.
In queste valli vorrei rimanere:
l’aria è frizzante, il cielo è sereno.
Ma devo esser franco e sincero:
questo caffè ha il sapor del veleno”.
Tosto al lavoro il dottore volò,
alle sue mani mise le ali
e in poco meno di dieci minuti
per la Peppina montò gli occhiali.
Da allora in poi nella piazza centrale
neanche gli inglesi prendono il tè
e nel paese tornato felice
perfino i gatti bevon caffè.