I bambini nel bosco

Renato Fucini

Tratta da: Il Ciuco di Melesecche, storielline in prosa e in versi - Einaudi (1922)

bambini nel bosco

Leggiamo insieme: I bambini nel bosco di Renato Fucini

O babbi, o mamme, state ad ascoltare
la storia triste che racconterò;
e se incomincerete a lacrimare,
sei fazzoletti vi regalerò.

Dunque state a sentir. Negli anni scorsi
un gran signor vivea presso Corfú.
Molti i fatti di lui, pochi i discorsi,
onesto, poi, da non poter di più.

Era malato e già vicino a morte,
senza speranza di poter guarire;
accanto a lui giacea la sua consorte
malata anch’essa e lì lì per morire.

Si amavano tra lor teneramente
e, come l’un per l’altro avean vissuto,
voller morire insieme. Solamente,
dicon che lui morì prima un minuto.

E nel morire (ahi, mi si spezza il core!),
e nel morir lasciaron due bambini:
lei, la bambina, bella come un fiore,
lui da sbagliarsi accanto ai cherubini.

Ma quel buon padre, nel suo testamento
(e questo è invero cosa che consola),
al figliuolo lasciò lire trecento,
e cinquecento circa alla figliuola.

E, prima di morire, a un suo parente
avea detto parole così belle
che, Dio guardi, a fissarci un po’ la mente,
c’è da versare il pianto a catinelle.

Gli avea detto così: “Caro cugino,
tu sarai padre, zio; tu sarai tutto
per la bambina mia, pel mio bambino
che lascio soli in questo mondo brutto”.

Quindi parlò la madre: “O buon Pancrazio,
vedi? avrò da campar pochi momenti;
ma, col cuor lacerato dallo strazio,
ti raccomando anch’io quest’innocenti.

Guardali dai barrocci e dalle fosse,
e da ogni rischio in cui possan trovarsi…”.
Ma qui fu presa da un nodo di tosse,
misera madre! e le toccò a chetarsi.

Appena morti i due miseri vecchi,
il buon Pancrazio dette a quei bambini,
per consolarli, quattro fichi secchi,
poi li menò a mangiar due pasticcini.

Durò un pezzo con ninnoli e carezze,
ma quando fu passato un anno e un giorno,
per appropriarsi delle lor ricchezze,
macchinò di levarseli di torno.

E, per farlo, chiamò due manigoldi,
dal cuor di sasso e dall’aspetto losco,
che fissaron con lui, per pochi soldi,
di portar quei bambini in fondo a un bosco.

E, con la scusa di condurli a spasso,
fece venir sellati due destrieri
sui quali, con gran strilli e gran fracasso,
montaron quei graziosi cavalieri.

E “Via, cavalli, via!”, sempre in carriera,
lieti per la campagna ampia e fiorita,
senza pensar che quella corsa ell’era
verso il finir della lor fresca vita!

A tanta festa, a tanti allegri canti,
quei due figuri che gli aveano in sella,
si sentivan calar, benché birbanti,
un gran rimorso in fondo alle budella.

Ma il più birbone, il più tristo e feroce
che avea peloso il cuor peggio d’un orso,
non dette ascolto a quella santa voce
e, pel guadagno, rintuzzò il rimorso.

Tanto che l’altro, assai di lui migliore,
visto dei suoi discorsi il poco effetto,
lo minacciò, quindi si fece cuore
e si levò di tasca uno stiletto.

Aspro e tremendo fu il combattimento;
ma presto e bene fu tirato in fondo:
il più buono restò vivo e contento,
il più cattivo andò nell’altro mondo.

V’immaginate voi, quei due fanciulli?!
All’orribile scena eran restati
fermi tra l’erba come due citrulli,
a bocca aperta e ad occhi spalancati.

Fatta la festa, quel birbante buono
prese per mano i due cari angioletti;
pianse, li accarezzò, chiese perdono
e si cavò di tasca due confetti.

Poi disse loro: “Ora venite via;
fidatevi di me, miei piccirilli.
Ma, Dio guardi se urlate: “Mamma mia!”
Dio guardi se mettete degli strilli”.

E li menò con sé. Ma a notte fitta,
vedendo lui che si succhiava un dito,
e lei che sbadigliava zitta zitta,
s’immaginò che avessero appetito.

Allora, lui, che fa? Dice: “Sedete;
aspettatemi qui, vado e ritorno.
Lo vedo bene, avete fame e sete…
Sarò da voi prima che spunti il giorno”.

Montò a cavallo, e via!… Ma aspetta, aspetta,
le lodole cantarono all’aurora,
a un’altra notte cantò la civetta;
e il buon birbante non tornava ancora!

Qua e là correano ansanti e desolati,
con lo spavento della morte in core;
i pallidi visini avean graffiati,
e le labbruzze tinte dalle more.

Ma son cessate, ahimè, pene e lamenti!
Presso un ciuffo di rovi addolorati,
giacciono accanto due visini spenti,
dalla luna che passa illuminati.

“E, dunque, han da restare anche insepolti?”,
gridan le querci della selva scura.
Ed ecco, soli, a coppie, a branchi folti,
pettirossi sbucar dalla verzura,

che, lacrimando dai bruni occhiolini,
e lavorando d’unghielli e di becchi,
ricopriron quei freddi corpicini
di foglie gialle e di steccucci secchi.

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