I vestiti nuovi del re

Se vi piace questa fiaba, dovete ringraziare Lella (23 agosto 2003).

C’era una volta un re il quale s’interessava di una sola cosa al mondo: i suoi vestiti. Avrebbe sacrificato ad essi perfino gli interessi del suo regno. Il denaro che proveniva dai tributi pagati dai sudditi veniva impiegato solo a rendere più ricco e più elegante il guardaroba del re. Egli poco si preoccupava dell’esercito e meno ancora delle arti per non dir nulla delle industrie e dei commerci; se si faceva vedere a teatro o alle feste era per il solo scopo di essere ammirato. L’abito che indossava a mezzogiorno era diverso da quello del mattino; dopo desinare ne indossava un terzo, e un altro ancora prima del tramonto. Come degli altri re si dice: “Sua Maestà è nella sala del Consiglio”, di lui si diceva: “Sua Maestà è in guardaroba”.
Nel suo palazzo ci si occupava solo di frivole mondanità. Ogni giorno capitavano nuovi ospiti, specialmente stranieri, e non sempre onesti. Assai spesso, anzi, molti imbroglioni approfittavano di quel via vai, e un giorno fra gli altri ne capitarono due che avevano deciso di volgere a loro profitto la vanità del re.
Si presentarono alla reggia e chiesero udienza.
“Sire,” dissero, “noi siamo tessitori e fabbrichiamo tessuti che non hanno eguali in tutto il mondo. Non solo per la bellezza dei colori e del disegno, ma perché le nostre stoffe hanno la proprietà di rimanere invisibili agli occhi delle persone di scarso intelletto o che occupano indegnamente qualche carica.”
“Magnifico!” pensò il re. “in questo modo potrò sempre sapere quali fra i miei consiglieri hanno la testa sulle spalle e quali no, e se coloro che rivestono le più alte cariche dello stato ne son degni. Voglio proprio farmi fare un abito con questa magica stoffa” Incaricò dunque i due birbanti di mettersi subito al lavoro e consegnò loro come anticipo una borsa di marenghi. Furono portati due telai in una sala del palazzo, i due tessitori sedettero al loro posto e presero a far scorrere le navette come se stessero tessendo. In realtà non facevano nulla se non cavar fuori nuovi denari dalle tasche del re con la scusa di dovere acquistare seta preziosa per le fodere o fili di oro purissimo per i ricami.
Dopo un po’ di tempo, il re volle sapere a che punto erano i lavori, ma lo turbava il dubbio che quella stoffa potesse rimanere invisibile anche a lui. Naturalmente egli aveva un gran concetto di sé ed era sicuro della sua intelligenza e della sua accortezza, ma ad ogni buon conto decise di mandare avanti uno dei suoi ministri più stimati e sulla cui saggezza nessuno nutriva dubbi. Il vecchio ministro sapeva già, al pari di ogni altro nella città, il magico potere di quella stoffa di cui si faceva un gran parlare. Non c’è dunque da meravigliarsi se, appena entrato nel laboratorio, sussultò sgomento. “Diamine!” pensò, “io non vedo nulla.” Frattanto i due compari gli eran venuti incontro facendogli un mucchio di cerimonie e chiedendogli il parere sul tessuto. “Eccellenza, guardi che colori! E il disegno non è una meraviglia?” dicevano indicando i telai vuoti. Il ministro guardava perplesso il punto che essi indicavano, ma non vedeva assolutamente nulla. “Sono dunque uno stupido o un incapace,” pensava tra sé. “bisogna che nessuno sappia quel che mi sta succedendo, altrimenti la mia carriera è finita.” “Ehm, uhm, ah, sicuro, è molto bella questa stoffa,” balbettò, “specialmente i colori… e anche il disegno. Lo dirò a Sua Maestà. Proprio un bel lavoro.”
I due tessitori entrarono allora in particolari tracciando nell’aria gran gesti come per seguire la linea degli ornati e dei ricami, e soffermandosi sui rossi fiammeggianti e gli intensi azzurri del tessuto. Il ministro li ascoltava attentissimo e, appena fu alla presenza del sovrano, ripeté parola per parola le loro descrizioni. In considerazione delle lodi e dell’approvazione del ministro, i due birbanti si credettero in dovere di chiedere nuovo denaro per provviste di seta e di oro. Inutile dire che i bei marenghi finirono nelle loro tasche perché le navette continuarono a scorrere a vuoto nei telai.
Dopo un po’ di tempo, il sovrano inviò un altro ministro per sapere come procedevano i lavori. Ed anche lui non fu più fortunato del suo collega: per quanto guardasse, non vide nulla perché non c’era nulla da vedere.
“Diavol mai,” pensò il ministro, “sono uno stupido e non lo sapevo. O magari non ho fatto il mestiere che avrei dovuto. Bisogna che stia attento a non tradirmi, altrimenti la mia reputazione è perduta.” “Magnifico, splendido,” esclamò. “Colori stupendi; quella porpora, poi, tra il cremisi e il paonazzo è una meraviglia.” Che nella stoffa c’era del rosso l’aveva saputo dal collega che l’aveva preceduto. Quando se ne fu andato, i due imbroglioni si misero a sghignazzare, sicuri del fatto loro.
“Dunque, che ve ne pare?” gli domandò il re quando se lo vide dinanzi.
“Due maestri della loro arte.” Rispose il ministro con grande sicurezza, “La stoffa che preparano per Vostra Maestà non ha eguali.”
“Voglio vederla anch’io”, decise allora il re. E si avviò verso la sala dei tessitori seguito dai due ministri e dai suoi dignitari al completo. Ma appena ebbe varcata la soglia, si fermò sbalordito: vedeva le navette scivolare sui telai, i rocchetti girare, i tessitori maneggiare qualche cosa tirandola da una parte, ma non vedeva nient’altro: la stoffa prodigiosa, i suoi bei disegni, i fili d’oro che l’adornavano, la fodera di seta erano per lui inesistenti.
“Voglio sperare che la Maestà Vostra non sia delusa,” gli mormorò il primo ministro nel vederlo silenzioso. “Quel rosso vivo tra le foglie di quell’albero ha un risalto meraviglioso.”
Ma il re continuava a tacere. Era sconvolto dall’idea di essere uno stupido o un cattivo sovrano. Infine balbettò: “Bello, bellissimo, sicuro. Sono molto soddisfatto.”
“Bellissimo, bellissimo,” fecero eco allora i cortigiani; e alcuni di loro proposero al re di presentarsi al popolo in quel meraviglioso abbigliamento in occasione del prossimo grande corteo.
“Faremo il possibile per essere pronti,” dissero i due furfanti. E il re, per incitarli, concesse all’uno una decorazione da appendersi all’occhiello nominò l’altro Tessitore Segreto della Real Casa. Si ritirò infine con un bel sorriso e i suoi cortigiani gli andarono dietro continuando a esprimere la loro ammirazione.
Venne infine il giorno del corteo. Per tutta la notte che lo precedette, una finestra della reggia rimase illuminata e la gente, nelle strade, sussurrava che là dietro i due mastri tessitori portavano febbrilmente a termine il loro lavoro. Alcuni riuscirono a dare un’occhiata in quella stanza in cui ardevano due dozzine di doppieri, e videro i due stranieri lavorare senza posa: cucivano l’aria con lunghe gugliate, tagliavano il vuoto con le forbici, misuravano il nulla col metro.
Quando sorse il sole, i due lisciarono delicatamente con le mani l’invisibile indumento e poi lo ammirarono estatici.
“E’ finito!” esclamarono. “Il re, in questa veste, sarà impressionante!”
Poco prima che il corteo incominciasse, arrivò il re col suo seguito. I due tessitori gli vennero incontro con le braccia tese come se sostenessero riguardosamente la veste magica.
“La Maestà Vostra voglia ammirare questa casacca,” disse l’uno. E’ leggera come una piuma, non si sente addirittura, e questo è appunto il suo merito.” “Ecco i pantaloni,” disse l’altro guardando con ammirazione il nulla che reggeva.
“E questo è il mantello,” riprese il primo accennando il suo braccio piegato.
Tutt’intorno i cortigiani non facevano che ripetere: “Magnifico, meraviglioso.” Poi il Tessitore Segreto della Real Casa accompagnò il re davanti a uno specchio per aiutarlo a vestirsi.
“I pantaloni, presto,” disse al compare, e fece il gesto di prenderli delicatamente con la punta delle dita. “Posso pregare la Maestà Vostra di alzare la gamba destra? Grazie. Un pochino più su, ecco. E adesso la sinistra, così.”
Poi venne avanti l’altro e ripeté la scena per la giacca. Infine andarono tutti e due a prendere il manto che avevano steso su una fila di sedie, e lo posarono con grande attenzione sulle spalle del sovrano, l’inginocchiarono dietro di lui per aggiustar bene le pieghe dello strascico e infine fecero due passi indietro per contemplare l’insieme. Il re fingeva di guardarsi nello specchio e intanto sentiva mormorare alle sue spalle: “Che regalità! Veramente maestoso!” Entrò il Gran Cerimoniere, picchiò tre volte la sua mazza sul pavimento e annunciò:
“I portatori del baldacchino sono pronti.”
“Andiamo pure,” rispose il re, e gettò disperatamente un’altra occhiata allo specchio. Ma vide solo quello che aveva già visto: un signore di mezza età con la corona in testa, mutandoni lunghi di maglia e camicia di pizzo. Vennero avanti i paggi e i due tessitori porsero loro lo strascico da reggere. Non reggevano che l’aria, ma se ne stavano lì seri e impettiti, con le braccia tese, aspettando che Sua Maestà si muovesse per andargli dietro. Il monarca si avviò seguito dai paggi, dal Gran Ciambellano, dai ministri e dagli altri dignitari, ognuno secondo il proprio rango, a cui si unirono gli ufficiali di corte e i funzionari; e il corteo si mise solennemente in marcia per le vie della città. Le strade erano affollate da non dirsi e a tutte le finestre si sporgevano grappoli di teste, perché tutti volevano ammirare il nuovo abito del monarca.
“Ah, che festa di colori! E il manto! Che magnificenza! Che bellezza poter avere un vestito come quello!” tutti davano in grandi esclamazioni di ammirazione perché nessuno voleva passare per uno stupido confessando di non vedere nulla. Nessuno abito del sovrano era mai stato lodato al pari di quel magico indumento.
A un tratto la limpida voce di una bimba esclamò:
“Papà, come mai il re non ha vestito?”
L’uomo che teneva la fanciulletta in collo avrebbe voluto sprofondare sotto terra. “E’ una bambina,” balbettò, “non è abbastanza intelligente per vedere.”
Ma quelli che erano vicino domandarono: “Come ha detto? Che il re non è vestito?”
“Si, si, ha detto così.”
E improvvisamente fu un coro di voci: “E’ vero, è vero, il re non ha nulla addosso.”
Il grido dilagò e giunse fino alle orecchie del re. Il sovrano cominciò a sospettare di essere stato imbrogliato, e l’idea di dover passare in mutandoni per le vie della città gli fece venire le vertigini. Ma ormai non c’era nulla da fare: era meglio insistere nella finzione fino all’ultimo.
E, a testa alta, più maestoso che mai, riprese il cammino seguito dai paggi che, irrigiditi e a braccia tese, continuarono a reggere il nulla.

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