Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

Francesco Petrarca

Tratta da: Canzoniere (Poesia numero: 128 - CXXVIII)

Italia mia

Leggiamo insieme: Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno (CXXVIII) di Francesco Petrarca

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali
spera ‘l Tevero et l’Arno,
e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ‘ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ‘ntenerisci et snoda;
ivi fa che ‘l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ‘l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ‘n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ‘l desir cieco, e ‘ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ‘l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ‘l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ‘l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ‘n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ‘l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.

Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ‘l danno;
ma ‘l vostro sangue piove
piú largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ‘l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.

Signor’, mirate come ‘l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ‘n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ‘l ben piace.
Di’ lor: “Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace”.

 

Parafrasi di: Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno (CXXVIII) di Francesco Petrarca

Italia mia, benché parlare sia inutile
a curare le ferite mortali
che vedo così numerose sul tuo bel corpo,
mi consola pensare che i miei sospiri siano quelli
che sperano [anche] il Tevere, l’Arno
e il Po, presso il quale dolente e afflitto io ora risiedo.
Governatore del cielo, io chiedo
che la pietà che ti ha condotto in terra
ti volga [nuovamente] al tuo nobile e prediletto
paese. Signore generoso, considera
da quali insignificanti cause che tremenda guerra [ne
è derivata]; e tu, Padre, spalanca, intenerisci
e libera i cuori, che Marte
superbo e terribile indurisce e chiude;
lì [nei cuori] fa’ che la tua verità venga udita
attraverso la mia poesia, al di là dei miei limiti.

Voi ai quali la sorte ha posto nelle mani il governo
delle belle regioni,
nei confronti delle quali pare non abbiate pietà
alcuna, che ci fanno qui tante spade straniere?
perché il terreno verde e rigoglioso
si tinge di sangue straniero?
Vi seduce una vana illusione:
siete miopi, eppure vi pare di vedere molto,
giacché cercate amore o fedeltà nei cuori di soldati
prezzolati. Chi possiede più soldati,
più è circondato da nemici.
O diluvio raccolto
da che strani luoghi selvaggi
per inondare le nostre dolci pianure!
Se questo accade per nostra colpa,
ora chi sarà a salvarcene?

La natura ha ben provveduto alla nostra salvezza,
quando pose le Alpi tra noi
e il furore tedesco per proteggerci;
ma la cupidigia cieca e inamovibile contro il suo stesso interesse
si sono poi a tal punto ingegnate
che hanno procurato un cancro al corpo sano.
Ora, dentro alla stessa gabbia,
dimorano fiere selvagge e mansuete greggi,
così che a dolersene sono sempre i migliori [gli italiani]:
e questo popolo, per nostra beffa,
appartiene a quella stirpe del popolo
senza legge, al quale, come si legge,
Mario inflisse una ferita tale
che il ricordo dell’impresa ancora non si è offuscato,
quando assetato e stanco
bevve dal fiume più sangue che acqua.

Non parlo di Cesare, che per ogni pianura
rese l’erba del colore del sangue
che scorreva nelle loro vene, dove pose le nostre spade.
Ora (invece) sembra, per non so quale astro avverso,
che il cielo ci abbia in odio:
grazie a voi, ai quali è stato dato un compito così grande.
I vostri voleri discordi
corrompono il paese più bello del mondo.
Quale colpa, quale punizione o destino
[vi induce] a tormentare i miseri
popoli vicini, ad infierire contro i loro beni straziati e dispersi,
a cercare fuori d’Italia
e poi accogliere gente che sparga
il proprio sangue e venda l’anima per denaro?
Io parlo per dire il vero,
non per odio, né per disprezzo di qualcuno.

E non vi accorgete ancora, nonostante le tante dimostrazioni
di inganno dei mercenari germanici,
che alzando il dito si fanno beffe della morte?
Peggio il disonore, a parer mio, che il danno;
ma il sangue dei vostri scorre
più copiosamente, dato che vi agita un odio ben maggiore.
Dalla mattina alla terza ora del giorno
pensate a voi stessi, e capirete quanta stima
può avere degli altri chi ritiene se stesso così vile.
Nobile sangue latino.
liberati da questi dannosi pesi;
non trasformare in un idolo un nome
illusorio senza fondamento:
poiché è nostra responsabilità, e non cosa naturale,
che la furia degli abitanti del Nord, gente arretrata,
ci superi in intelligenza.

Non è questa la patria che io toccai prima?
Non è questo il mio nido,
nel quale ho vissuto così dolcemente?
Non è questa la patria nella quale io ho fiducia,
madre benevola e pietosa,
nella quale sono seppelliti l’uno e l’altro dei miei genitori?
Per Dio, questo pensiero
talor vi muova, e con pietà guardate
le lacrime del popolo sofferente,
che spera di ottenere sollievo
solo da voi, dopo Dio; e sarebbe sufficiente che mostraste
qualche cenno di pietà,
e la virtù prenderà le armi
[contro il furore barbarico] e il combattimento
sarà breve: poiché l’antico valore
nei cuori del popolo italiano non è ancora spento.

O signori, considerate quanto veloce vola il tempo,
e, allo stesso modo, quanto la vita scorra
veloce, e come la morte ci stia sulle spalle.
Voi ora siete qui; pensate alla morte:
giacché è necessario che l’anima arrivi
nuda e sola a quel passaggio difficile e cruciale.
Durante il passaggio in questa valle [della vita
terrena] vogliate deporre l’odio e lo sdegno,
forze contrarie a una vita serena;
e quel tempo che viene impiegato
nel provocare sofferenze a terzi, sia tramutato
in qualche azione o pensiero più degno,
in qualche bella attività lodevole,
in qualche onesta occupazione:
così quaggiù si può vivere in pace,
e si trova libera la strada che conduce in paradiso.

Canzone, io ti esorto
a esporre cortesemente i tuoi argomenti,
poiché dovrai recarti tra genti superbe,
e le loro volontà sono piene
ormai della cattiva e antica abitudine,
sempre nemica della verità.
Troverai la tua fortuna
tra i pochi animi nobili che amano il bene.
Dì loro: “Chi mi difende?
Io vado gridando: Pace, pace, pace”.

 

Note su: Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno (CXXVIII) di Francesco Petrarca

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno è una poesia di Francesco Petrarca, tratta dal Canzoniere.

Il Canzoniere è composto da 366 liriche o canzoni (una per ogni giorno dell’anno più una di introduzione). Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno è la canzone numero 128.

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno è una canzone politica e fu composta da Francesco Petrarca probabilmente tra il 1344 e il 1345, durante la guerra tra Obizzo d’Este e i Gonzaga di Mantova nella città di Parma.

Ma la guerra parmense è solo lo spunto iniziale.
Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno in realtà è un monito per principi italiani, un’esortazione perché abbandonino i loro interessi personali, causa di tante lotte intestine che affliggono il paese. Nel testo inoltre viene esaltato il glorioso passato italiano.

Per approfondire, visitate il sito di WeSchool, cliccando qui.

 

Illustrazione tratta da CulturaNuova.net

 

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