La favola di una Dea

Ecco la fiaba di Serena (10 novembre 2005).

Capitolo I
Il sole, ormai alto nel cielo, dava calore a quella giornata così fredda. I sui raggi penetravano tra i rami di quegli alberi così grandi e verdi. L’ultimo interminabile viale, dove dolci petali bianchi accarezzavano l’aria e si lasciavano trasportare dal lieve armonioso vento, era l’ultimo tratto da percorrere prima di giungere finalmente alla nuova casa. Superato il viale, si stendeva un immenso prato verde con tanti fiorellini variopinti. Nell’aria regnava un gran silenzio…si udivano solo uccellini cinguettanti svolazzare al passaggio della carrozza. Un posto incantevole, da favola, che si affacciava proprio su quel luogo, quasi pareva un ritratto.
Lì in fondo una casetta, un po’ vecchia e grigia, parte anch’essa di quel bel ritratto. Abbandonata chissà da quanto tempo, piena di polvere e in un caos immaginabile, rendeva quel luogo così immensamente fantastico.
Il viaggio, lungo e stressante era finalmente giunto al termine.
Scesa dalla carrozza con cui viaggiavano da più di due giorni, una carrozza vecchia, nera e scomoda, una fanciulla carina, esile nel suo corpo e di gentile aspetto. Dea era il suo nome. Capelli lunghi, lisci e neri, sciolti al vento, magra, con un viso pallido, ma incantevole. Indossava un vecchio abito grigio, semplice, che le scendeva sui fianchi evidenziandone delicatamente le forme. Scarponcini neri, un po’ slacciati e consumati, ma solo quello poteva permettersi. Lei e sua madre, Teira, erano povere donne giunte da lontano per scappare da chi o che cosa.
Sua madre, anch’essa esile e con l’aria stanca, aprì quella fragile porta che mostrava, all’interno, un’unica stanza con un tavolo di legno traballante ormai andato e qualche sedia di paglia per lo più sfondate, poste ancora vicino al caminetto. Una lunga scalinata portava al piano superiore.
S’incamminò la piccola fanciulla su per le scale, curiosa com’era, quasi curvata in avanti per tenersi in equilibrio. Non vi erano passamani e il soffitto era basso.
Il piano superiore non era molto diverso da quello inferiore: un’unica grande stanza con un gran letto matrimoniale al centro, rivestito di un lenzuolo bianco trasandato che lasciava fuoriuscire la sua preziosa paglia spargendola, un po’ qua e un po’ là, per tutta la stanza.
Dietro la porta era nascosto un vecchio armadio, con le ante ancora aperte, di un legno anch’esso marcio. In fondo alla stanza, una finestra che faceva penetrare quello che, per la piccola, era la cosa più bella del mondo: il sole. Con quei suoi raggi di luce dava splendore e ricchezza persino a quella stanza così mal ridotta.
Scesa di nuovo al piano inferiore, vide sua madre già a lavoro. Si tirò su le maniche del vestito e con felicità ed euforia aiutò sua madre a trasformare quell’ambiente in una casa vivibile e più accogliente.
Fattasi sera e stanche dal lavoro, si coricarono su quel letto che, ormai, sembrava di una regina. Ben fatto, senza più l’ombra di un briciolo di polvere e così caldo!
Il mattino seguente la piccola fu svegliata da un raggio di sole che timoroso entrava dalla finestra. Si alzò, senza fare troppo rumore, indossò il suo abito e scese giù per la scalinata.
La casa si presentava molto diversa da come l’avevano trovata. Era pulita, luminosa e non più spoglia come prima. Andò fuori, prese della legna e dell’acqua fresca. Accese il fuoco. Mise a scaldare un po’ di latte e nel frattempo recuperò un pezzo di legno che legò, ben saldo, al piede del tavolo traballante. Mise sulla tavola una bella tovaglia color azzurro e vi pose, giusto al centro, il vaso pieno d’acqua. Uscì nuovamente a raccogliere tanti bei fiori profumati e colorati che diedero un tocco d’allegria alla casa.
Dopo aver fatto colazione, le due donne, si dedicarono alla pulizia della stalla situata lì di fianco. Non vi erano porte, ma un’unica grandissima entrata che dava spazio ad una confusione di cose vecchie ed arrugginite.
Mentre stavano tutte prese a sistemare alcuni attrezzi per il campo, sentirono avvicinarsi qualcuno. Si bloccarono, intimorite nel vedere che una così bella, luccicante e maestosa carrozza stava raggiungendo proprio loro.
Si fermò. Il cocchiere andò ad aprire la portiera ed ecco affacciarsi una figura distinta, con i capelli brizzolati quanto basta per rendere un uomo affascinante. Un po’ lunghi sulle spalle, accarezzati dal vento, lasciavano una scia di luce brillante ad ogni suo gentile movimento. Un viso allungato, di una pelle delicata e rosea e con un sorriso coinvolgente. Sceso dalla carrozza, quel signore dai bei vestiti, di un tessuto e di un colore marrone che trasmetteva calore solo a guardarlo, con un delicatissimo foulard rosso al collo che lo rendeva ancora più elegante, i pantaloni racchiusi in quegli stivali neri, nuovi e luccicanti che davano signorilità a chi li indossava, rimase lì vicino nell’attesa che qualcun altro scendesse.
Apparve una figura più imponente, grossa nell’aspetto e ricca nei suoi vestiti. Il Conte offrì il suo forte braccio a quel signore per permettergli di scendere con più facilità e poi s’inchinò davanti a lui. Era enorme, ma erano soprattutto i suoi abiti a renderlo tale. Aveva sulle spalle maestose, un lungo mantello rosso, soffice e con una caldissima pelliccia bianca ai bordi. Stelline dorate, ricamate su quel mantello reale, inondate dai raggi del sole, luccicavano e abbagliavano gli occhi delle due donne.
Era il Re? Impossibile! Ma perché una tale visita? Erano appena arrivate, cosa mai poteva volere? Quella visita per loro era inaspettata.
Sapevano che, non lontano da lì, vi era il castello reale, che in quel luogo regnava un Re molto gentile, di buon cuore e molto vicino al suo popolo. Doveva essere tutto vero se si era scomodato a far loro visita, solo per dargli il ben venuto!
Il Re entrò nella stalla a conversare con la madre della fanciulla, mentre quest’ultima ed il Conte, rimasero ai bordi di quell’immensa apertura, ad ascoltare in silenzio. Quasi incantato dalla bellezza dei suoi occhi verdi, resi lucidi dai raggi del sole, che la inondavano, facendo trasparire tutto quel luccichio di felicità che emanavano, il Conte non riusciva a distogliere il suo sguardo, finché la ragazza, persa più volte anche lei, negli occhi neri e profondi di quell’uomo, che con tanta semplicità e tranquillità la scrutavano intensamente, abbassò lo sguardo. Il Conte sorrise e si voltò.
Il Re, proprietario di quella vecchia casa di campagna, le aveva accolte e donato loro un tetto per i giorni avvenire. Non sapeva che le due donne erano già arrivate e si scusò del fatto di essere piombato così, senza preavviso.
La visita fu breve, ma concisa. Questi, prima di risalire sulla carrozza, ordinò al Conte di ritornarvi per sistemare e gettare via alcune cose vecchie, inutili e pesanti.
La carrozza si allontanò, lasciando quel luccichio di brillantezza nell’aria, per sparire poi del tutto, tra un mare di petali galoppanti bianchi, dietro al viale. Le due donne tornarono al loro lavoro. Non una parola, né un commento. Solo gioia nell’aria perché qualcuno aveva pensato a loro.
Non mancando all’ordine dato dal Re, il Conte, dopo qualche settimana, tornò a far loro visita. Tutte imbarazzate, lo fecero accomodare nella loro umile casa, contente di non essere state dimenticate. Egli entrò, ma non si sedette. Aveva raggiunto quel luogo a piedi, tutto solo, aveva l’aria di essere un po’ stanco, ma nonostante questo non volle sedersi.
Presentatosi a loro finalmente come il Conte Di Rivè, Darson Di Rivè, si scusò della scortesia appena fatta. Spiegò di aver avuto, giorni fa, un incidente a cavallo, riportando una lieve ferita alla gamba e soprattutto un profondo taglio al braccio sinistro. Non potendosi trattenere a lungo, si scusò per non poter portare a termine l’ordine datogli dal Re, ma appena gli sarebbe stato possibile, avrebbe rimediato.
La fanciulla sorrise e si avvicinò dolcemente, tanto da imbarazzare il Conte. Gli prese delicatamente il braccio e gli sollevò la manica della giacca. Notò che la fasciatura era troppo stretta. Si allontanò senza una parola. Il Conte non riusciva a capire quel gesto e guardò la madre. I loro occhi s’incrociarono per la prima volta per perdersi gli uni negli altri. Non aveva notato, prima di allora, che quella donna, così giovanile, nascondeva una bellezza ineguagliabile. Rimasero per tutto il tempo così, senza dire una parola, finché la ragazza non tornò.
Questa portava con se delle bende e dell’acqua. Lo fece sedere. Il Conte ormai atterrito da una tale familiarità che suscitavano quelle donne, non batte ciglio. Si ritrovò seduto su quella seggiola, che anche se mal ridotta, si rivelò comoda e rilassante. Scrutava la fanciulla che con modi sempre così dolci, iniziò a togliere quelle inutili fasce.
Il taglio era davvero profondo, ma non sanguinava. La fanciulla disinfettò la ferita e gli poggiò sopra una benda. Senza stringerla troppo la fissò e gli disse di non tenerla troppo coperta.
Questi, che prima aveva fretta di andare, iniziò a conversare piacevolmente con loro, tanto da non accorgersi che il sole stava scomparendo dietro la collina.
Quando andò via, era ormai buio. La figura esile del Conte scomparve insieme a quell’arancio sole che aveva lasciato nell’aria, solo una polverina dorata che luccicava sui prati in lontananza e che faceva sperare in un’altra giornata di sole l’indomani.

Capitolo II
Le giornate, sempre più calde, passavano velocemente. In lontananza, quando l’aria era tranquilla e c’era tutto un silenzio intorno, si poteva ascoltare distintamente il suono dolce e rilassante delle trombe a corte: un buffo suono, perché incantava chi lo ascoltava.
La fanciulla più volte si distendeva sui prati, sempre più verdi e fioriti, un po’ distanti da casa e si lasciva trasportare da questo, in luoghi fantastici ed immaginari. Mentre stava così distesa, con gli occhi chiusi a fantasticare, sentì, tutto ad un tratto, un tonfo rumore. Si tirò su più velocemente che poteva, ma non riuscì a capire cosa era stato. Distolta, ormai, da quel rumore, abbandonò il suo sogno e decise di tornare. Si girò e s’incamminò verso casa, con l’aria distratta, ma felice, con un grosso sorriso sulle sue labbra così piccole e rosee. Tutto ad un tratto, un brivido freddo lungo la schiena la paralizzò in un lampo. Qualcuno era alle sue spalle! Velocemente si sentì sfiorare, rimase immobile, senza fiato. Chi era? Vide allontanarsi un cavallo, così maestosamente bello, tutto di un unico colore splendente marrone, con una lunga coda nera al vento. Non vide il viso di chi lo montava, ma la sua immagine le rimase impressa. Era un giovane, elegante, tutto vestito di bianco, con dei ricami dorati lungo i bordi del suo abito. Un luccichio, quasi innaturale, avvolgeva quell’immagine che diventava sempre più piccola, per poi sparire misteriosamente tra gli alberi.
Anche se aveva avuto paura, Dea, più di una volta, ripensò a quella figura che così tanto l’aveva colpita nell’animo e più volte si chiese se non era stato solo frutto della sua immaginazione.
Nei giorni successivi, lei e sua madre, ebbero da lavorare molto, sia in casa sia fuori. Sistemarono l’orto, situato dietro la loro casa: un immenso orto trascurato ormai da tanto, con dei grossi e numerosi alberi che promettevano presto dei bei frutti. Questo lavoro portò via loro del tempo, tanto che Dea non ebbe più modo di pensare al suo sconosciuto, né recarsi più in quel posto. Pian, piano, quella figura un tempo raggiante nella sua mente, divenne sempre più confusa.
Il Conte, entrato a far parte della famiglia perché sempre più spesso allietava loro della propria presenza, guarito ormai del tutto da quell’incidente avuto, le aiutava nei lavori più pesanti. A Dea piaceva soffermarsi a guardarlo anche da lontano, così poteva notare cose che neanche sua madre riusciva a vedere. Quelle piccole attenzioni che il Conte Darson porgeva a Teira e quegli sguardi così intensi…non una parola volava nell’aria tra loro, ma in quello sguardo e in quegli occhi fulminanti vi si leggeva tutto.
Più delle volte, il Conte, amava raccontare loro affascinanti storie, assurde ed incredule a volte, che lasciavano Dea imbambolata ad ascoltarlo. Raccontava, con tanto entusiasmo, di un giovane ribelle del palazzo, delle sue avventure, a volte anche pericolose, ma che in ogni caso riusciva sempre a portare a termine. Dai suoi racconti si poteva immaginarlo: un ragazzo molto forte, sveglio, dai modi sempre gentili, ma con tanta vivacità, tanta voglia di vivere e di sorridere. Dea, che ne rimase affascinata fin dal primo racconto, avrebbe voluto tanto conoscerlo di persona, poter parlare con lui e ascoltare la sua voce. Per questo, il Conte, le promise che un giorno l’avrebbe portato con se.
I giorni si susseguirono l’uno dietro l’altro, mutando di colore. Giorni di uno splendido sole, abbagliante e caldo, finivano per lasciare il posto a quelli più bui, grigi ed umidi. Le visite del Conte divennero saltuarie e soprattutto nei giorni più brutti, erano del tutto assenti. In quel periodo, nonostante il mal tempo, le donne dovettero ugualmente prendersi cura del loro orto, contando solo sulle proprie forze. Dopo lunghe giornate costrette a trascorrere in casa a causa della troppa pioggia che scendeva dal cielo, quella mattina Dea, fu svegliata, non da un raggio, bensì da un bagliore di luce imponente, penetrante da quell’unica finestra della stanza. Si alzò dal letto, vi si avvicinò e subito capì che quel giorno sarebbe stato un giorno speciale. Sentendosi così meravigliosamente bene, nel vedere una così bella giornata, dopo quel temporale spaventoso della sera precedente, si vestì velocemente e scese di sotto. Presa dalla voglia di uscire, scalza, s’incamminò verso l’orto. Era deliziata da quell’aria calda che le sfiorava il viso e le accarezzava dolcemente le guance. Giunta lì, non credeva ai suoi occhi: si guardò tutta intorno, per mettere a fuoco la sua vista ancora appannata dal sonno, per poi scoprire il misterioso miracolo della natura. Le prime foglioline di verdura erano germogliate, gli alberi avevano dato i loro primi frutti e, tutto intorno a lei, sembrava rinato.
Quel giorno, sua madre si recò al paese per prendere informazioni sui giorni di mercato. La nostra fanciulla, rimasta da sola, decise di occuparsi delle pulizie di casa, così al ritorno della madre, potevano riposarsi tranquillamente.
Recatasi fuori con un secchio di legno, si avvicinò alla fontanella posta a pochi metri da lì. Riempì fino all’orlo il secchio e poi con tanta forza, stando attenta a non far cadere l’acqua, lo sollevò tutto d’un fiato. Era molto pesante per lei e faceva fatica a trasportarlo fino in casa. Più volte si dovette fermare, riposarsi un po’ per poi ripartire. Nell’attimo in cui, dopo essersi fermata per qualche secondo, andò a sollevare il secchio, qualcuno con uno scossone violento, gli tolse dalle mani quel peso, facendole perdere del tutto l’equilibrio.
Caduta a terra, rimase pietrificata dallo spavento, con le gambe allungate e le mani dietro la schiena per sorreggersi. Vide davanti a se un cavallo, bianco macchiato, che alzatosi su due zampe, emise uno stridente nitrito per poi calmarsi e fermarsi del tutto, ben saldo a terra. Saltò giù da quel maestoso animale, un ragazzo, giovane d’età e dai movimenti svelti, con un corpo agile, forte, con un candido maglioncino azzurro, su dei pantaloni stretti grigi. Non vide il suo volto, non n’ebbe il tempo, perché questo, con molta fretta, andò a posare quel secchio, che stringeva ancora con tanta energia, sull’uscio di casa.
Distratta da quel giovane, non si accorse dell’altro cavallo, dall’aria familiare, che dolcemente si avvicinò a lei. Vi scese il Conte, l’aiutò a risollevarsi e le domandò se stava bene. Lei sorrise, era solo spaventata, non ferita. Si girò di colpo, incuriosita di conoscere il volto di chi le aveva fatto questo. Di fronte, ecco arrivare di nuovo quel giovane, che scuotendosi di dosso un po’ di polvere che aveva sollevato il cavallo, si avvicinò a lei. Con dei modi del tutto diversi dai precedenti, le prese la mano, l’avvicinò alle sue labbra e le chiese umilmente scusa. Non voleva farle male, ne spaventarla in quel modo. Dea alzò gli occhi…un viso dolce dinanzi a sé la fissava, con quegli occhi di un azzurro così intenso e brillante che rispecchiava il colore del cielo di quella giornata così bella. I capelli di un castano chiaro, un po’ mossi, brillavano sotto quel sole ed emanavano un dolce profumo. Con quell’aria sbarazzina che aveva e quel sorriso raggiante, le fece tremare il cuore…una sensazione mai sentita prima.
Era lui il ragazzo di cui, il Conte, le aveva tanto raccontato? Non credeva ai suoi occhi! Quel ragazzo era adesso davanti a lei, così normalmente tranquillo e soprattutto così bello.
Si presentò come Otris, figlio del Conte. Dea rimase stranita. Il Conte non le aveva mai detto o fatto capire, in nessun modo, che quel ragazzo ribelle a suo padre, era proprio suo figlio.
Ma allora il Conte Di Rivè era sposato? Possibile che aveva frainteso quel suo interesse verso sua madre? Delusa, invitò i due ad entrare in casa, con la promessa che al più presto, gli avrebbe chiesto spiegazioni.
Passarono una mattinata a parlare, tutti e tre seduti a quel tavolo. Il Conte, sperava anche in un ritorno di Teira, ma invano. Fattasi, poi, l’ora di pranzo, i due, fecero per andarsene, ma Dea chiese loro di farle ancora compagnia, restando a pranzo con lei. Il Conte ed Otris, si guardarono pensierosi. Avevano molte cose da sbrigare, ma, in fondo, non c’era tanta urgenza.

Capitolo III
Le vendite andavano abbastanza bene. Teira, in quel periodo, tornava a casa sempre molto tardi e molto stanca, ma in compenso, era ben ripagata. A volte, anche Dea doveva accompagnarla in paese, nei giorni più pesanti, quando il raccolto era tanto e da sola non poteva farcela. Quel giovedì, invece, non ce n’era stato bisogno. Dea rimase di nuovo a casa da sola a sbrigare le faccende domestiche. Appena ebbe terminato, decise di prendersi un po’ di libertà.
Da tanto tempo non si recava, ormai, in quei prati, dove ascoltando le trombe del castello, amava sognare. S’incamminò, con la speranza di poter rivedere anche quel giovane apparsole la prima volta.
Faceva molto caldo, si sdraiò sotto l’ombra di un’immensa quercia che era posta giù nella valle, al centro di una distesa di papaveri rossi. Attese con ansia, ma non udì, né vide avvicinarsi nessuno. Chiuse gli occhi per un istante, ma si ritrovò addormentata. Si accorse della presenza di qualcuno, solo quando questo si avvicinò a lei tanto, da sentirne il profumo. Con un filo d’erba le stava accarezzando la guancia. Si stropicciò gli occhi e vide, a pochissimi centimetri dalle sue labbra, un viso un po’ sfocato. In un primo momento aveva desiderato tanto che fosse quel principe vestito di bianco, invece era Otris. Una volta riconosciuto, fu assalita da una strana sensazione. Il suo stomaco e quel nodo in gola, le fecero balenare nella mente un pensiero curioso: da quanto tempo era lì? E cosa le stava facendo? Reagì per istinto e con un brusco colpo di mani, lo allontanò da lei. Otris la tranquillizzò. Era appena arrivato e non l’aveva neanche sfiorata! Si sedette accanto a lei, la sua mano toccava quella di Dea, ma nessuno dei due si mosse. Parlarono molto. Otris le raccontò altre storie fantastiche e così si ritrovarono piacevolmente l’uno appoggiato all’altra.
Intanto, Teira, finito prima del solito le sue vendite, pensò di fermarsi, sulla via del ritorno, a comprare degli abiti e delle scarpe nuove per lei e sua figlia. Tornata a casa, si accorse che non c’era nessuno. Salì sopra per indossare il suo vestito, tinto di rosa, candido, che le calzava a pennello e soprattutto la rendeva più giovane e bella…e quelle scarpe, nere, comodissime e più leggere. Scese di sotto, posizionò il vestito e le scarpe di Dea sul tavolo e attese il suo ritorno.
Quando arrivò, tutta di corsa e affannata, era un po’ tardi, la madre stava già preparato la cena. Le chiese scusa per l’ora e mentre stava per raccontarle di Otris, i suoi occhi si posero sulla madre, tutta vestita a nuovo, poi voltatasi verso il tavolo, vide finalmente una scatola e quel vestito bellissimo, lì abbandonato sul tavolo. Lo sollevò, guardò la madre che le sorrideva e corse di sopra a misurarlo. Le andava perfetto. Fece le scale di corsa e abbracciò sua madre per ringraziarla. Era al settimo cielo, e con quell’abito addosso sembrava una principessa. Le donava molto quel verde pastello che faceva accentuare ancor più il colore dei suoi occhi. Avvitato, ma non stretto sui fianchi, le lasciava molta libertà di movimento. E quelle scarpette, marroni, con dei lacci lunghi, erano comodissime. Che gioia! Da tanto tempo l’aveva sognati.
Quella sera non riusciva a chiudere gli occhi, tanta l’euforia. Quel fantastico, inaspettato regalo da parte di sua madre, che tanto l’aveva desiderato e poi Otris che le aveva tenuto compagnia, sotto quella vecchia quercia, soli, a parlarsi e raccontarsi di tutto, con una vista fantastica di fronte a loro e quell’aria calda che riusciva a scaldare perfino i loro cuori.
Dopo quella volta, i due non ebbero più modo di incontrarsi. Del lavoro arretrato li tenne lontani, l’uno all’altra, per un po’. Lei, però, non faceva altro che pensare a quella giornata, così piacevolmente trascorsa insieme a lui…dove più volte i loro occhi si erano incrociati e più volte aveva avuto la sensazione che Otris volesse dirle qualcosa. Aveva una gran voglia di rivederlo e soffriva in quei giorni di silenzio che li separava.
Alzatasi più tardi, Dea rassettò il letto, scese al piano di sotto dove la madre, che aveva già preparato tutto, si era seduta su una sedia a rattoppare dei cuscini vecchi. Le aspettava, finalmente, una giornata di riposo, tranquillità e calma.
Ma, appena un’ora più tardi, si udì un cavallo correre ed avvicinarsi a loro. Uscirono: era il Conte, tutto su di giri, spaventato e tremante. Senza salutarle, spiegò loro l’accaduto e fatta salire, Dea, sul cavallo, ripartì a gran velocità.
Giunsero dinanzi una casa, non lontana dal castello reale. Era enorme e ben tenuta, con un giardino immenso tutto fiorito. Doveva essere la casa del Conte, pensò Dea! Il cavallo si fermò ed il Conte saltò giù, afferrò i fianchi della ragazza e l’aiutò a scendere. Poi, le fece strada. All’interno si presentava tutta splendente, con lampadari di cristallo luccicanti e pendenti. Le pareti tutte ricoperte di un velluto bordeaux ed i mobili lucidati a tal punto che ci si poteva specchiare dentro. Saliti su per la scala, vi era un lunghissimo corridoio, numerose porte chiuse a destra e sinistra davano poca luce a quell’ambiente. Mentre Dea si guardava intorno, rimasta stupita di tutta quella ricchezza, una domestica le venne incontro, con l’aria affaticata e agitata, fece loro cenno di affrettarsi. Attraversarono tutto il corridoio per giungere finalmente davanti quella stanza, dove c’era Otris. Disteso su quel letto, tutto tremante e dolorante, il giovane si stringeva, dal gran dolore, il suo ginocchio sanguinante. Era una brutta ferita che aveva causato anche un gonfiore dell’arto. Dea, a quella scena, entrò senza esitazione. Pose la borsa, che aveva portato con se, sulla poltrona lì di fianco, guardò Otris negli occhi e senza pensarci, gli diede un bacio dolcissimo sulla fronte. Otris chiuse gli occhi e si affidò a lei. Sollevò la mano dalla ferita e Dea con molta forza e determinazione, gli strappò i pantaloni all’altezza del ginocchio. Chiese alla domestica di portarle subito dell’acqua fredda, altra bollente e degli asciugamani puliti.
Si lavò le mani, le asciugò e poi con l’acqua fredda pulì delicatamente la ferita. Aprì la borsa e prese del disinfettante. Nonostante Dea proseguì sempre molto delicatamente e con molta attenzione, quando poggiò il cotone imbevuto sulla ferita, sebbene soffiò per non far sentire il troppo bruciore, il giovane perse i sensi. Dea non si preoccupò e continuò il suo lavoro con molta calma. Vi spalmò, alla fine, dell’unguento rinfrescante, tutto intorno al ginocchio, per evitare che si gonfiasse ulteriormente. Quando ebbe finito, fasciò per bene la ferita, con la speranza che presto avrebbe smesso di sanguinare.
Prese una bottiglietta di aceto, molto forte e la passò sotto il naso del ragazzo, il quale, rinvenne in un attimo e un po’ stordito si accorse che era già tutto fatto. Dea stava allontanandosi da lui per riporre le sue cose nella borsa, quando la mano forte di Otris l’afferrò per un braccio, trattenendola stretta a se.
Il Conte Darson, vedendo che il ragazzo stava riprendendosi, ordinò ai domestici di uscire. Rimase lì ad osservarli da lontano per un po’, poi, richiudendo la porta alle sue spalle, li lasciò soli.
Dea, poggiata sul petto di Otris, che la stringeva ancora con tanta forza, si sentiva persa nel suo sguardo, in quel momento così intenso. Il cuore le batteva all’impazzata, sentiva il respiro di Otris, sul suo viso, sempre più vicino e non capiva perché tutto questo. Lui, che nutriva già da qualche tempo un amore verso Dea, forse fin dal primo giorno che l’aveva vista, la baciò.
In un attimo lei si ricordò delle sensazioni provate quel giorno sotto la quercia, l’ansia dei giorni seguenti, il dolore che aveva provato nel vederlo soffrire quello stesso giorno e quello che stava provando in quel preciso istante. Capì che, anche se non voleva ammetterlo, lei, ne era innamorata.
Nei giorni seguenti, il Conte, si recava a casa delle due donne per accompagnare Dea da Otris per le medicazioni, poi tornava da Teira a farle compagnia ed aiutarla con l’orto.
Trascorsa appena una settimana, Otris si stava riprendendo completamente, riusciva anche ad alzarsi e presto avrebbe ripreso la sua vita di tutti i giorni. Quella sera, invece, il Conte stranamente tardava ad arrivare. Per Dea era ormai tardi e doveva tornare a casa. S’incamminò a piedi, tutta sola nel buio della notte. Aveva paura, ma doveva tornare.
Attraversò quel paese che lei conosceva, perché più volte si era recata con la madre, per giungere in una stradina, buia ed isolata. Sentì un forte vento alle sue spalle. Tremante si girò. Di nuovo lui! Quel cavallo marrone montato dal giovane vestito di bianco le passò vicino. Aveva gran fretta di andare anche questa volta. Ma chi era?
Lei risollevata un po’ dallo spavento preso, continuò per la sua strada. Si accorse, ben presto però, che quel giovane a cavallo, la stava in qualche modo scortando, poiché più volte lo vide da lontano sulla sua stessa via, come se l’aspettasse, per poi scomparire del tutto una volta giunta a casa.

Capitolo IV
La vita tornò ben presto alla normalità. Nei giorni di mercato, Teira e Dea, si recavano normalmente giù in paese. Durante gli altri giorni, sbrigavano le loro faccende in casa.
Non vedendo più così spesso il Conte Di Rivè e suo figlio, che erano sempre più impegnati con le riunioni che si tenevano al castello, ne sentivano quasi la mancanza.
Era agosto, il sole era più caldo che mai. L’aria, all’orizzonte, sembrava prendere fuoco. Spesso si sentivano, nel paese vicino, suoni a festa. Era, infatti, un periodo particolare dell’anno, dove tutti erano più allegri. Grandi feste in strada, con suoni e canti che giungevano fino a loro. Anche per i regnanti a corte, quello, si rivelò un periodo importante. Si parlava, infatti, di un probabile fidanzamento del Principe Arios e di una gran festa che presto si sarebbe tenuta per l’occasione.
Quando, finalmente, il Conte Darson tornò a far loro visita, dopo più di due settimane passate a sistemare le faccende burocratiche di corte, purtroppo per Dea, lui era solo. Questi, raccontò loro dei problemi avuti al castello. Il fidanzamento di cui tutti parlavano era vero, ma il Principe non aveva nessun’intenzione di prendere moglie. Per questo, il Re, andava su di giri e si disperava. Erano momenti difficili e anche se sua Maestà cercava di parlare, far ragionare suo figlio, era tutto inutile. Darson, fratello del Re, oltre che suo braccio destro, non sapeva più cosa fare per mettere riparo a quella situazione.
Dea, sentendo quel discorso, senza pensare a quello che stava per dire e soprattutto che sua madre era lì presente, chiese al Conte di sua moglie. Il Conte, colto di sorpresa, rimase in silenzio per un po’. Non poteva dire di non essere stato sposato almeno una volta, altrimenti Otris…Raccontò loro la storia che sua moglie era morta nel mettere al mondo il suo unico figlio, storia anche vera, ma solo in parte e che non si era mai più risposato.
Anche se aveva mentito a Dea e soprattutto a Teira, cui teneva molto, più di quanto immaginava, era sicuro che un giorno avrebbero compreso e l’avrebbero perdonato. Nonostante tutta questa sua sicurezza, si sentì colpevole di aver, in qualche modo, tradito la loro fiducia e per un attimo fu preso dalla paura di poter perdere per sempre il suo amore, tanto a lungo cercato e che finalmente aveva trovato.
Teira e sua figlia, sorprese di sentire quella storia così addolorante, si strinsero in petto, rimanendo in silenzio. Dea pensò ad Otris e si sentì dispiaciuta dell’aver fatto quella domanda, ma in cuor suo era anche molto felice di aver udito quelle parole, perché adesso sapeva che il Conte Di Rivè era libero e che se nutriva un amore per sua madre, non poteva essere solo un capriccio.
Il Conte salutò le signore e montato a cavallo, si allontanò al trotto. Abbandonato il pensiero dell’inganno fatto loro, fu assalito dagli innumerevoli problemi che lo aspettavano a corte. Si fermò all’improvviso, quasi ai bordi di un precipizio dove in lontananza vi era una bella vista del castello reale. Il vento che dava sollievo a quel calore insopportabile, sfiorava il campo di grano dietro alle sue spalle, lasciandosi cullare dolcemente. Rivolto il suo sguardo al castello lontano, il Conte, rimase lì immobile, per un po’, a pensare.
Che stupido era stato. Perché non ci aveva pensato prima?
Doveva solo infondersi coraggio, in fondo era quello che più desiderava al mondo e forse sarebbe stato anche l’unico modo per risolvere, definitivamente, il problema che più assillava il Re in quel periodo. Spronò il cavallo, adesso aveva gran fretta di tornare a casa. Doveva assolutamente parlare con Otris.
Giunto finalmente davanti al palazzo reale, si catapultò giù da cavallo e corse dal ragazzo. Chiuso nella sua stanza, Otris non aveva voglia di parlare né stare a sentire nessuno. Era arrabbiato nero e avrebbe fatto chissà cosa per evitare quella situazione. Quando udì il Conte, ancora prima che bussasse alla porta, gli disse di andarsene. Darson insisté. Al sentire udire in nome di Dea, Otris, aprì la porta. Non aveva capito bene cosa stesse dicendo di lei in quel momento, ma solo il fatto di sentirla nominare, in quel modo così agitato, si preoccupò. Era tanto tempo che non la vedeva ed aveva un forte desiderio di avere sue notizie. Il Conte entrò e gli parlò immediatamente dei suoi sentimenti per Teira. Dopo qualche ora di discussione Darson aveva finalmente trovato quella soluzione così tanto rincorsa. Se la sua amata, avrebbe accettato di prenderlo come suo sposo, questo matrimonio, avrebbe per un po’ distratto il Re. La data prefissata per annunciare il fidanzamento del Principe sarebbe stata, sicuramente, rimandata.
Ora non restava altro da fare che trovare il modo, il coraggio e soprattutto le parole giuste da dire a Teira.
La gran fretta che aveva il Conte di recarsi da lei, per parlarle e spiegarle il tutto, fu fermata dal mal tempo che si abbatté in quei giorni, inaspettato e tanto violento che fu impossibile raggiungerla. Saltati i loro piani, dovettero solo attendere con pazienza. Il Principe Arios, tranquillizzato un po’ dalla soluzione trovata dallo zio, riprese con tutta calma il suo lavoro di comandante delle truppe. Si dimostrò, quello, un buon metodo per distrarsi e non pensare più a quel giorno ormai sempre più vicino.
Il Conte uscì. I nuvolosi grigi, ormai spazzati via dal vento, avevano lasciato il posto al sole che di nuovo risplendeva alto nel cielo a dare calore alla terra.
Galoppò per raggiungere la casa di Teira, passando per il paese dove sapeva che, se giorno di mercato, l’avrebbe potuta trovata lì. Si fermò e diede a guardare tra le numerose persone che vi erano. Finalmente la trovò. Era lì, con quel suo abito rosa, così gentile con tutti e sempre sorridente. Moriva dalla voglia di parlarle e se non lo faceva subito, non avrebbe avuto più il coraggio di dichiararsi. Si fermò davanti una trattoria, scese e legò il cavallo ad un palo. Si recò verso di lei osservandola meticolosamente. Tutti i contadini si meravigliarono nel vedere il fratello del Re, lì in paese, tutto solo e a quell’ora del giorno.
Lei non si accorse di nulla, fino a quando il Conte, allungò la sua mano verso di lei. Lei alzò gli occhi e lo vide. Lui le disse che aveva bisogno di parlarle immediatamente. Teira si spaventò di quell’aria seria che aveva: che altro era successo? Ma il Conte le sorrise e presa la sua mano, la portò con se. Uscirono dal paese, si fermarono proprio in quel campo di grano, dove Darson, aveva preso quella decisione così importante. Sotto il sole sempre più caldo, rimasero a guardare il castello brillare sotto un arcobaleno. Lui, senza scendere da cavallo, né voltarsi verso di lei, iniziò a parlarle. Era difficile trovare le parole giuste ed era un po’ imbarazzato. Ad un tratto si girò a guardarla, i loro occhi erano fissi, le prese dolcemente la mano, senza distogliere lo sguardo, la tirò a se e la baciò. Non aveva avuto il coraggio, alla fine, di chiederle niente, ma quel gesto sostituiva mille parole. Teira ricambiò quel bacio e lo abbracciò fortemente. Continuarono a parlare ore ed ore, passeggiando in quei campi, mano nella mano, a volte abbracciati, dimenticandosi completamente del mercato, di Dea…di tutto il resto del mondo.
Dea sarebbe stata contentissima di apprendere una tale notizia. Avrebbe avuto di nuovo un padre che tanto aveva cercato in passato, quel padre che l’aveva abbandonata quando lei aveva soli tre anni. Non avevano avuto più sue notizie fino al giorno del suo sedicesimo compleanno quando si presentò in casa, come se niente fosse mai accaduto, con la pretesa di portar via sua figlia. Solo dopo tredici anni si era reso conto di avere una figlia, di voler prendersi cura di lei. Presto si scoprirono ben altre cose sul suo conto e le due donne erano state costrette a scappare via per colpa sua.
Dopo aver girato tanti posti, senza mai trovare un vero tetto che le riparava, avevano avuto la fortuna di giungere lì a Biffalon, dove il Re, gentilmente, le aveva accolte ed aiutate.
Biffalon, in realtà, era il nome di tutta la contea, suddivisa poi in vari paesi, collocati tutti intorno al castello e lì, nella valle, quella vecchia proprietà dove adesso vi abitavano.

Capitolo V
Erano trascorsi giorni dall’annuncio del matrimonio tra Teira ed il Conte ed a corte l’aria era più tranquilla. Il Re era felice che suo fratello avesse trovato, finalmente, una moglie dopo le brutte avventure capitategli da giovane. Aveva appreso anche che questo matrimonio si sarebbe rivelato una soluzione a tutti i suoi problemi, promessa fattagli da Darson, anche se non riusciva a capire bene come. Dea, invece, aveva trascorso, in questo periodo, delle giornate in solitudine. Era molto agitata per l’evento ed era anche molto felice di vedere, finalmente, la madre così sorridente, piena di vita, come non lo era mai stata prima. Anche se provava tanta gioia per questo, in cuor suo sapeva che tutto ciò avrebbe significato rinunciare al proprio amore. Dea ed Otris, infatti, sarebbero divenuti due fratellastri. Questo si rivelò un serio problema, non calcolato dal Conte né da Otris, perché Dea decisa più che mai, avrebbe rinunciato alla propria felicità per amore di sua madre. L’amore per Otris sarebbe stato solo fraterno da ora in poi e niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea. Quando i due giovani s’incontrarono, parlarono e discussero a lungo sull’argomento. Otris non capiva perché…perché rinunciare. Infondo non c’era nessun legame di sangue tra loro!
Tutte parole inutili, Dea aveva già deciso da sola. Otris, allora, le fece una sola domanda, apertamente e anche un po’ brusca: le chiese se l’amava veramente. Attese con ansia, ma non ebbe nessuna risposta, si girò e scappò via.
Il gran giorno si avvicinava sempre più. Dea non rivide più Otris, il quale si dedicò completamente al suo lavoro, sperando di poter dimenticare presto. Non voleva più rivederla, ne soffriva al sol pensiero. Il Conte Darson, vedendolo in quello stato, si avvicinò per chiedergli cosa era successo, perché non usciva più dalla sua stanza, perché non s’incontrava più con Dea, proprio adesso che poteva farlo senza nessun problema!
In lacrime Otris si voltò e lo assicurò che era felice per lui. Stava finalmente per coronare il suo sogno, mentre lui non avrebbe mai potuto provare una tale felicità. Spiegatogli tutto, Darson scoppiò a ridere, involontariamente, senza pensarci. Diede un colpo sulla spalla del giovane e lo confortò dicendo di dare tempo al tempo. Otris, con il suo sguardo fulmineo, lasciò un forte senso di colpa nell’animo di Darson, il quale si sedette e, con calma, gli raccontò la fine di quella, così ingarbugliata, loro storia d’amore. Ripresosi e ricaricatosi, Otris, si diede coraggio, non poteva arrendersi così facilmente. Teneva molto a Dea e nessuno gli avrebbe potuto impedire di sposarla, neanche suo padre.
Era giunto finalmente il gran giorno, tanto atteso da tutti. Dea e sua madre, salirono sulla carrozza che le attendeva lì fuori, luccicante, color dell’oro e nero sui bordi. S’incamminarono per raggiungere il luogo dove sarebbe avvenuta la cerimonia. Il Conte, vestito elegantissimo, in alta uniforme blu notte, con delle strisce bianche sui lati dei pantaloni, affascinante come sempre ed emozionantissimo, attendeva Teira sull’uscio di quella chiesetta, situata nel bel mezzo di un prato verde, in un posto meraviglioso, isolato dal resto del mondo, immerso in un gran silenzio e sperduto in un’immensa vastità di fiori variopinti.
Era proprio lì che un giorno anche Dea avrebbe voluto celebrare il suo matrimonio…ma con chi? Si guardò in giro, non c’era proprio nessun altro oltre a loro. Perché Otris non era venuto?
Scesero dalla carrozza. Darson nel vedere Teira vestita così meravigliosamente elegante, con quell’abito che arrivava direttamente da Parigi, bianco panna, lungo fino ai piedi, ricamato con filo luccicante intrecciato a pagliette capaci di catturare nelle loro piccole sfaccettature, tutta la luce del sole, illuminandone il viso, rimase incantato dalla sua bellezza come se fosse stata la prima volta che la vedesse. La raggiunse, le offrì il suo braccio sinistro e la condusse all’altare.
Dea, anch’essa con un abito parigino, lungo, di un colore celeste pastello, brillante, abbinato a delle scarpette perlate a tacchi alti, con una pettinatura semplice che raggruppava i suoi lunghi capelli tutti sulla nuca, tra un trio di violette bianche e blu, sperava nella presenza di Otris. Con tutto il cuore aveva desiderato di trovarlo lì, per quell’occasione così importante: era suo padre in fin dei conti a sposarsi, perché non era venuto?
La cerimonia ebbe inizio. Dea si voltò un’ultima volta verso quella porta piccola, ma luminosa. Sperava di veder apparire all’improvviso un’ombra, ma inutilmente. Scacciò, quindi, il suo pensiero e si concentrò unicamente sulla felicità di sua madre. L’emozione che stava provando in quel momento il suo cuore, le fece dimenticare per un momento l’assenza di Otris. Usciti dalla chiesa, tutti sorridenti, la madre abbracciò Dea, molto forte, con le lacrime agli occhi. Sarebbero stati fuori solo qualche giorno, ma doveva stare ugualmente attenta. Il Conte si avvicinò, la baciò sulle guance e la rassicurò. Non doveva preoccuparsi, avrebbe pensato lui a sua madre. Doveva promettergli, però, di non essere triste per Otris, il quale aveva avuto sicuramente le sue buone ragioni per non essere lì in quel momento e che si sarebbero presi cura l’uno dell’altro durante la loro assenza, come dei veri fratelli. Strappatole finalmente un sorriso, la strinse forte a sé, le raccomandò di stare attenta e salì sulla carrozza. I due sposi si allontanarono per il loro viaggio di nozze. Rimasta sola, ordinò al cocchiere di condurla a casa. Mentre stava pensierosa in carrozza, si accorse che in lontananza vi era un cavallo marrone che la seguiva. Poté vedere chi lo montava, ma senza riconoscerlo in viso. Si ricordò del suo principe a cavallo. Era lui? Probabilmente la stava scortando fino a casa come già era successo in passato. Ma perché? Chi era veramente costui? Vide che pian piano si avvicinava, non l’aveva mai fatto prima! I cavalli si bloccarono e Dea si affacciò al finestrino della carrozza. Era Otris! Non era per niente delusa di vederlo, anzi sperava in questo. Lui, vestito in alta uniforme, con i capelli al vento e gli occhi luminosi, le spigò che aveva fatto di tutto per liberarsi dagli impegni di lavoro, ma era giunto tardi per la cerimonia.
Dea scese dalla carrozza e attese che Otris facesse lo stesso da cavallo. Rimasero lì, vicini, presi per mano, entrambi bellissimi, con quella luce rossa del sole alle loro spalle, che faceva risaltare tutto intorno a loro. Una miriade di sfumature di colori e di ombre rendevano i loro contorni più accentuati e tutto era più romantico. Otris, nell’ammirarla, rimase colpito soprattutto da quella sua semplicità e stupito per come una pettinatura un po’ diversa, dei fiori delicati intrecciati tra i suoi capelli, potessero valorizzare ancor più il suo dolcissimo viso. Non poté resistere, doveva baciarla. Dea si scostò, erano stati molto tempo senza vedersi, senza parlarsi e anche lei desiderava quel bacio, ma non voleva far finire quella giornata con un litigio. Dovevano chiarirsi in modo definitivo. Otris mandò via la carrozza per proseguire a piedi fino a casa. Giunti al viale, un’aria fresca e pulita avvolse i loro corpi. Dea socchiuse gli occhi per un istante e respirò intensamente, poi si fermò per sedere ai piedi di un albero, sotto una stupenda cascata di petali bianchi. Otris rimase in piedi, lì vicino, pensieroso, a giocherellare con una pietra. Attendeva che Dea dicesse qualcosa, una sola e semplice parola che potesse dargli una speranza. Ma lei parlava unicamente di quel maledetto fratello maggiore che lui, in realtà, non era e non voleva esserlo.
Aveva trascorso giornate lontane da lei, a meditare, a discutere con Darson e alla fine ad organizzare tutto. Non poteva rischiare di perderla, in nessun modo. Lui l’amava troppo ed era sicuro che anche lei provava le sue stesse cose per lui. Non era facile essere paziente. Il tempo correva velocemente senza dare tempo a se stesso. Una domanda si concesse di farle. Doveva sapere se, non esistendo questo loro legame fraterno, lei l’avrebbe sposato? Dea rimase stranita. Cosa centrava quella domanda nel discorso che gli stava facendo. Lei stava cercando di dirgli…di fargli capire esattamente la cosa contraria e, in ogni caso a quella domanda lei non poteva rispondere, si sarebbe fatta troppo male solo nel pronunciare quella piccolissima sillaba. Si alzò di scatto, lo guardò dritto negli occhi, annuì con il capo e corse fino alla fine del viale. Si fermò, si girò e sorridendo lo salutò con la mano.

Capitolo VI
Al castello, il Principe Arios comunicò al Re, suo padre, che avrebbe partecipato, finalmente, alla festa, più volte rimandata, per annunciare il fidanzamento. Voleva molta gente e le più belle fanciulle della zona perché aveva intenzioni serie questa volta. Il Re, che non credeva a ciò che stava udendo, si domandò se quello era veramente suo figlio e come avesse fatto, il fratello Darson, a convincerlo.
Tutti entusiasti della notizia, compreso i domestici, si affrettarono su e giù per le scale, affinché tutto fosse pronto al più presto e soprattutto prima che il Principe cambiasse di nuovo idea. Il sabato successivo si sarebbe tenuto il ricevimento più grande e più importante mai avuto prima, se non fosse stato per un piccolo inconveniente, pretesto del Principe. Così viziato e a volte presuntuoso, aveva chiesto, in cambio, la vecchia proprietà di Biffalon, rimessa a nuovo e consegnatagli proprio per il giorno del suo matrimonio. Arios sapeva benissimo che quella casa ora apparteneva allo zio Darson, o meglio, che le era stata promessa, come dono di nozze alla figliastra.
Perché, allora, una pretesa tanto azzardata? Cosa ne doveva fare lui di quella proprietà, così vecchia ed abbandonata? Era come al solito uno dei suoi capricci per rendergli la vita più difficile.
Appena tornati dal viaggio di nozze, il Conte e sua moglie, furono immediatamente convocati dal Re. Dopo una veloce e magnifica accoglienza al castello, Darson dovette recarsi nell’ufficio di sua maestà, il quale lo mise al corrente di tutto. Il Conte era sollevato e felice, sorridente alla notizia. Finalmente il ragazzo si era deciso a seguire il suo consiglio. Per il resto non dovevano preoccuparsi e dovevano fare solo come aveva deciso Arios. Avevano atteso tanto quel momento che non potevano dargliela vinta anche questa volta. Si sarebbe fatto esattamente come voleva.
Dea, affezionatissima a quella casa e a tutto ciò che la circondava, pur restandoci male, con il tempo avrebbe capito.
Arrivò quel fatidico sabato. Una numerosa folla di invitati si presentò al castello. Il Re e suo figlio, vestiti in alte uniformi, bianche, splendenti e luccicanti, rese preziose ed eleganti da cordoncini dorati posti ai bordi delle giacche e sulle spalle, seduti sui propri troni rossi, con i loro cappelli pieni di piume bianche tra le mani, accoglievano tutti in modo signorile, man mano che questi fossero annunciati. Posti sui fianchi, a formare un corridoio, gli invitati attendevano che tutti fossero presentati al Re. Annunciarono, finalmente, anche l’entrata dello zio Darson e la sua famiglia. Il Principe Arios mostrò molto più interesse ed ansia nel poter vedere il viso di quella fanciulla che stava nascosta dietro ai suoi genitori. Tutti i presenti, compreso il Re, rimasero veramente colpiti dall’eleganza e la bellezza di quelle donne. Teira, che indossava un abito lungo, un po’ gonfio sui lati, di un colore verde scuro, accompagnata al braccio di suo marito, in uniforme serale, brillava alla luce forte di quei lampadari pendenti dal soffitto. Dea, invece, indossava un abito gonfio sulle spalle e stretto fino alla vita per poi gonfiarsi di nuovo sui fianchi e cadere giù fino a terra con uno strascico lunghissimo. Quel colore giallo sole, sfumato di un arancio brillante con sbalzi di stoffa che scendevano tutti intorno, contrastante con i suoi capelli neri, legati solo ai lati con delle margherite dello stesso colore e che scendevano sulla schiena leggermente scoperta da quella scollatura affascinante, la rendeva tale da non riuscire più a distoglierle lo sguardo di dosso. Dea sentendosi imbarazzata e soprattutto sola in quel momento, in cui tutti la stavano fissando, abbassò lo sguardo senza curarsi di scoprire, finalmente, il volto del suo Principe vestito di bianco. S’inchinò dinanzi a lui, con la promessa che mai avrebbe perdonato suo fratello di averla abbandonata in quell’occasione, all’ultimo momento.
Arios, sorridente a quella scena in cui tutto l’imbarazzo della ragazza fuoriusciva in modo evidente, avrebbe voluto alzarsi e correre da lei per salvarla e portarla via, lontano da tutti quegli sguardi soffocanti. Avrebbe tanto desiderato trovarsi, in quel momento, altrove insieme a lei…a lei sola. Ne era veramente innamorato. Lei non era per niente cambiata da quel loro primo incontro, in quei prati fioriti dove amava recarsi per ascoltare le trombe reali e sognare, distesa, senza accorgersi di essere guardata, scrutata da qualcuno. Poi quel piccolo inconveniente che l’aveva distolta e costretto lui a scappare via. Anche se i suoi abiti adesso erano ben diversi e la rendevano più bella, sapeva che Dea era semplice e pura nell’animo ed era questo quello che la rendeva ancor più amabile ai suoi occhi. La fanciulla, subito dopo il saluto, quasi scappò via. Uscì sul terrazzo, immenso e con un bel panorama che affacciava su tutta la contea. Era una serata magica e romantica. Quell’aria che avvolgeva il castello era tranquilla e serena. Sembrava di far parte di una favola, ma senza lieto fine. Lei, infatti, sarebbe stata ancor più contenta se al suo fianco ci fosse stato il suo Otris. Perché si comportava così? Avrebbe tanto desiderato la sua compagnia. Il poter ballare con lui almeno una volta quella sera! Divertirsi ad ascoltare le sue storie incantate senza pensare più alla realtà della vita, così diversa e difficile. Rimasta quasi tutta la sera sola, lì sul terrazzo, con il pensiero rivolto altrove, ad Otris o alla sua casa che si riusciva a vedere in lontananza, immersa in una luce offuscata che la rendeva irreale, non si accorse che dentro la sala si stavano richiamando all’attenzione tutti gli invitati per il gran momento. Si sarebbe annunciato, finalmente, il fidanzamento del Principe e Dea stava per perdersi anche quello. Ad un tratto si sentì chiamare, si voltò ed a gran sorpresa vide Otris. Il suo sorriso era enorme, quasi le sue labbra non reggevano a tanta contentezza. Gli corse incontro abbracciandolo fortemente, era felice di vederlo, tanto che non si accorse di come era vestito. Otris, le afferrò le braccia e l’allontanò dal suo petto. Con lo sguardo serio, la fissava. La baciò appassionatamente. Lei non riuscì, questa volta, a fermarlo in tempo e presa dalla voglia di sognare, ricambiò quel bacio. Otris si rese conto che in quel momento Dea non aveva avuto il tempo di capire la situazione. Non le era ancora chiaro cosa stesse per succedere, ma Otris non volle rovinare quel momento così romantico che si era creato tra loro. Ballarono insieme un valzer, sul terrazzo, con quell’atmosfera divina, tutti soli e soprattutto lontani da qualsiasi sguardo inopportuno. Senza essere notati, né disturbati da nessuno, continuarono a ballare fino alla fine di quella melodia dolcissima. Il Conte Darson e Teira che li stavano cercando preoccupati, a vederli abbracciati in quel modo, stretti l’una all’altro, si sentirono felici e commossi. Ora erano solo ansiosi di attendere il momento del loro fidanzamento. La musica smise di suonare, il Re prese la parola e reclamò a voce alta la presenza di suo figlio. Un po’ spaventato nel non vederlo, pensò che anche questa volta era scappato via, lasciandolo nell’imbarazzo più totale.
Otris sentendosi costretto a rientrare in sala per la grande occasione, prese Dea per la mano e la condusse dentro. L’abbandonò dietro di se, stringendola forte al polso prima di lasciarla definitivamente. Salì al fianco di suo padre e guardò da lontano la sua Dea. Con lo sguardo fisso su di lei, sperava in una sua reazione positiva a quella rivelazione, ma lei sembrava addirittura pietrificata, non diede nessun segno, di nessun genere. Otris, o meglio il Principe Arios, si chiese se sarebbe scappata da lui all’improvviso e la cosa più dolorosa per lui era vederla andar via in lacrime senza poter fare molto per fermarla. Si tranquillizzò nel veder giungere alle spalle di Dea, lo zio Darson che le poggiò una mano affettuosa sulla spalla e le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Il Re non avrebbe mai resistito ad un’altra crudele scortesia del figlio di fronte a tanta gente, ma vedendolo giungere, con quell’aria seria e preoccupata, capì che questa volta non l’avrebbe deluso. Fu annunciato il nome della futura sposa del Principe: Dea De Rivè! A quel nome la folla si aprì. Il Re non immaginava che suo figlio era innamorato proprio di quella ragazza, presto sua nuora e figliastra di suo fratello. Ora capiva…e presto gli fu chiaro tutto. Quei due, maledetti complici, anche questa volta si erano presi gioco di lui e l’avevano tratto in quell’orribile, ma pur divertente tranello. Contentissimo di aver sofferto fino alla fine, per la gioia di suo fratello e suo figlio, attendeva impaziente che quella fanciulla si avvicinasse al trono, che prendesse il suo posto vicino al Principe e che rendesse partecipe a quella gioia, così naturalmente evidente, tutti i presenti.
Dea fu sbloccata da un delicato colpo ricevuto, dietro la schiena, dal Conte. S’incamminò verso di loro, timorosa ed incredula. Tutto ad un tratto, come se risvegliatasi da un sogno, sollevò il vestito per non inciampare ed iniziò a correre. Moriva dalla voglia e dalla contentezza di poter, finalmente, abbracciare il suo Principe vestito di bianco.

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