La fiaccola dei desideri
Guido Gozzano
C’era una volta un giovane malaticcio, gobbo e debole che però si chiamava Fortunato. Sui diciott’anni decise di lasciare la casa paterna e di andare per il mondo. Camminava in fretta, per giungere prima di notte a qualche riparo. Ad un tratto gli parve di scorgere un chiarore tremulo: affrettò il passo e giunse ad una capanna di legno dove viveva una vecchietta minuscola. “Buona donna, mi sono perduto”. “Vieni avanti, figliuolo mio”. Fortunato entrò nel tepore della capanna. “Ti farò parte della mia cena.”
Si sedettero e la vecchia, di nome Endora, pose in mezzo a loro un piatto ed una ciotola minuscola, con dentro una briciola e due chicchi di riso. Fortunato la guardava stupito. Ma Endora fece un segno imperioso con la mano destra: ed ecco la briciola trasformarsi in un tacchino arrostito. Ed ecco la ciotola convertirsi in una zuppiera elegante, dove c’era una minestra dal soave profumo. Fortunato mangiò con appetito e dopo cena Endora gli disse: “Figliuolo, raccontami la tua storia”.
Fortunato le disse delle sue vicende in cerca di fortuna. “Aiutatemi voi”.
“Io non sono una fata e i miei incantesimi sono pochi… Ma ti confiderò un segreto che tutti ignorano. Ti indicherò la via che conduce al castello dei desideri”, disse Endora.
All’alba del giorno dopo la vecchietta disse: “Cammina tre giorni e tre notti senza voltarti indietro e arriverai ad un castello. Picchierai con questa pietra alla gran porta del castello, che s’aprirà. Attraverserai cortili e stanze e nell’ultima stanza troverai un vecchio addormentato in piedi, con in mano un cero verde; è quello il talismano che tu devi rubare e che esaudirà ogni tuo desiderio. Bada che il castello è pieno di frodi magiche, ma il negromante, i draghi, gli spiriti si addormenteranno dal mezzogiorno all’una…”.
Fortunato prese la pietra, ringraziò Endora e proseguì la strada sulle sue stampelle.
Dopo tre giorni giunse al castello. Attese lo scoccare delle dodici e picchiò con la pietra sulla porta, che si aprì. Fortunato indietreggiò, inorridito. Aveva innanzi un cortile pieno di salamandre gigantesche, di rospi, di vipere, di scorpioni colossali. Ma tutti dormivano e Fortunato si fece animo e attraversò cortili, androni, corridoi e giunse ad una sala immensa ed oscura. Il negromante decrepito dormiva, recando nella mano protesa il cero verde. Fortunato tolse il cero di mano al negromante e ritornò indietro di corsa. I battenti si rinchiusero alle sue spalle, con fragore sordo. L’una scoccò all’istante, ma Fortunato era salvo.
Subito accese il cero e comandò: “Mi sparisca la gobba, mi si raddrizzino le gambe!”.
E la gobba disparve e le gambe si raddrizzarono.
Fortunato riprese il suo cammino e giunse in città a notte fatta. Scelse un’altura spaziosa e vi comandò un palazzo più bello di quello reale. All’alba i cittadini guardarono trasecolati l’edificio meraviglioso. Fortunato stava ad un balcone e il Re della città, Pietro, arse di sdegno e d’invidia. Poi giurò odio eterno al forestiero misterioso.
Un giorno Fortunato vide la figlia del Re, Nazzarena. La principessa sembrava sorridergli benevola e Fortunato s’innamorò di lei e pensò che il cero lo potesse aiutare a conquistarla.
Meditò a lungo come esprimere il suo desiderio.
“Cero, voglio che la principessa sia fatta invisibile e trasportata all’istante nel mio giardino”.
Fortunato attese col cuore che gli palpitava forte… Ed ecco apparire la figlia del Re. Fortunato s’inginocchiò e disse: “Sono il cavaliere che passa ogni giorno sotto i vostri balconi”. E Fortunato le dichiarò il suo amore e le disse che voleva presentarsi al Re per chiederla in sposa. “Se vi presentate vi farebbe uccidere all’istante”, disse Nazzarena. “Purtroppo il Re Pietro, mio padre, vi odia!”.
Dopo quella sera Fortunato fece venire sovente al suo palazzo la principessa Nazzarena.
Ma un’ancella si era accorta di queste assenze notturne della ragazza e riferì la cosa al Re che si consigliò con un negromante che consigliò: “Appendete alle vesti della principessa una borsa forata piena di farina: all’alba scopriremo la traccia del suo cammino”.
Così fecero e Fortunato fu catturato e condannato a morte.
Fortunato espresse l’ultimo desiderio: “Chiedo soltanto mi sia recato un piccolo cero verde, che ho dimenticato a palazzo”.
“Gli sia concesso”, disse il Re. Un valletto ritornò col cero e, fra l’attenzione di tutto il popolo, Fortunato lo accese mormorando: “Cero, che tutti i qui presenti eccezion fatta della principessa, sprofondino in terra fino al mento”.
Ed ecco la folla, la Corte, il Re e la regina inabissarsi d’improvviso.
Fortunato prese Nazzarena al braccio e s’appressò alla testa regale. “Maestà, ho l’onore di chiedervi la mano della principessa Nazzarena”. Il Re Pietro guardò Fortunato con occhi irosi e capita la situazione, accettò. Allora Fortunato comandò al cero di liberare tutti quanti. E nel giorno stesso furono celebrate le nozze.