La pelle del coniglio

La pelle del coniglioQuel giorno era di pomeriggio, verso le quattro. Splendeva un bel sole e faceva caldo, pur essendo appena l’inizio di giugno 1947, ben prima dell’afosa estate.
Nel cortile di casa, inchiodato all’albero di fichi, c’era un bel coniglio e, come sempre, la nonna Orsola era occupata a levargli con cura la pelle. Mi disse: “Preparati se vuoi portare la pelle da Buttignol e prenderti qualche soldo. Sperando di trovare Gildo o meglio ancora suo padre Massimo. Buoni come sono come minimo 15 lire te le danno”.

Così quando è arrivato il momento, con la pelle di coniglio sotto braccio, via di corsa da Buttignol, che comprava e rivendeva stracci, ferro, alluminio, rame, vecchi arnesi rotti, insomma di tutto. Aperto il piccolo cancello tutto arrugginito e cigolante, scesa la rampa di scale che portava nel vasto piazzale, vado subito nella zona della “pesa” dove venivano conclusi gli affari, gli scambi di merce e i pagamenti.

Fortuna volle che trovai proprio Massimo, il più buono, che conoscevo bene perché era un vicino di casa. “Proprio una bella pelle di coniglio, se ti va bene ti do 15 lire” mi disse. Proprio quanto aveva previsto mia nonna, confermandosi donna di molto senso pratico pur essendo analfabeta, neppure capace di fare la sua firma, al posto della quale faceva una tremolante croce tutta sbilenca. “Altroché” replicai tutto contento e subito pensai che ne avrei versate 10 lire a casa e trattenuto le altre 5 per i dolcetti.

Così di ritorno mi fermai all'”Osteria delle Mattane” per comprarmi 5 lire di mentine colorate, le caramelline che erano su in alto nel vaso di vetro sopra il bancone. Ricordo perfettamente come la padrona dell’Osteria le contò una per una, attenta a non darmene per sbaglio qualche una in più e rimetterci.
Erano buone ma con un difetto: erano piccole e finivano troppo presto.

Erano gli anni del dopoguerra, periodo di tanta miseria e pellagra. Ricordo il “Nane”, che con le poche lire racimolate con qualche lavoretto comprava sempre solo qualche fetta di mortadella, che metteva in mezzo al pane. Solo mortadella, perché costava di meno. Tant’è che in paese si diceva: “Quando il Nane morirà le fabbriche di mortadella falliranno!” E cosa dire dei tanti che, per mangiare, andavano col tegamino fuori della Caserma Gotti a prendere i resti del rancio dei militari, il pane che avanzava?

Questa storia, scritta da nonno Silvio, non è frutto della sua fantasia, ma vera e insegna che è importante apprezzare quello che si ha oggi, frutto di tanto lavoro e sacrifici.

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