La professoressa Tussi
Emanuela Nava
La Tussi era la più orribile, sputacchiosa, verdastra professoressa di lettere mai entrata in una scuola media. Era villana, rozza, puzzolente, come ricordano bene anche le mie compagne Paola e Mely. Così oscena da preferire le cinque più brave della classe, chiamandole persino per nome e trattare a cognome e note in faccia tutte le altre. Eravamo solo femmine: col grembiule nero lucido e i grandi bottoni bianchi. Femmine ancora incerte se restare bambine o diventare donne. E lei ci torturava. Ci mortificava.
– Razza di inette che non siete altro! – gracchiava con voce da rospo – Inutili poppanti da strapazzo. Quando vi deciderete a crescere?
Per me poi nutriva un’autentica repulsione. Non mi guardava mai negli occhi, se non per pietrificarmi. Se le facevo una domanda, se ero rimasta indietro e non avevo capito bene la differenza tra la congiunzione e il pronome relativo mi lanciava una laconica risposta con occhi sfuggenti.
– Studia, studia, lavativa – biascicava.
Io ero la peggiore secondo lei: collezionavo 3 e 4 come figurine. E l’album delle mie figuracce era il suo registro e la mia pagella.
Mia mamma era disperata.
– Sua figlia è una mezza scema – le disse la cara Tussi a un colloquio di fine trimestre. Forse non usò proprio queste parole gentili, ma il senso del discorso fu proprio quello. E aggiunse:
– Alla fine della terza media, le cerchi un lavoro, signora, dia retta a me. E dimentichi il liceo: in una scuola così difficile, sua figlia non avrebbe nessuna possibilità.
Non ebbi più dubbi. Quando mia mamma mi spiattellò quello che aveva detto quell’essere abbietto, presi una decisione.
– La farò fuori! – gorgogliai. E il giorno dopo iniziai a fissare la raccapricciante Prof dal mio banco in quarta fila, per trovare il modo migliore per attuare il mio piano. Morso di cobra, scossa di torpedine, puntura di scorpione, contavo sulle dita. Intanto la scrutavo, studiando con calma il suo viso feroce: il colorito paonazzo, gli occhi gelidi, il naso aquilino.
A quel naso adunco avrei appeso volentieri un granchio per le chele. Al collo taurino, un pitone come sciarpa. Alle orecchie, due meduse come ciondoli.
C’era un mare e c’era una foresta infinita di bestie pronte ad aiutarmi. Era divertente immaginarle tutte avvinghiate a lei, più mostruosa di qualsiasi mostro marino o terrestre. In testa un nido di vespe, sulle spalle un gatto selvatico, sul petto un riccio come spilla. Nelle scarpe due tribù intere di formiche vampire.
Anche un pipistrello tra i capelli sembrava un’ottima idea, così come un polipo sulla cattedra, pronto a strappare con i suoi tentacoli i fogli del registro in mille pezzi.
La Tussi era così ridicola, ora che la sognavo vittima del mio esercito bestiale, che non mi faceva neppure più paura. La vedevo mentre si divincolava, gridava, implorava pietà. Era pronta a mandarmi al liceo con tutti 8 e 9, se solo avessi mosso un dito per aiutarla.
A un tratto scoppiai a ridere così forte che l’intera classe si girò a guardarmi. Anche lei, la vecchia Prof, cercò di polverizzarmi con gli occhi. Ma io ero troppo estasiata per preoccuparmi delle sue amabili maniere.
Sorrisi a Paola e a Mely.
– La sua vita è salva! Non temete, l’ho perdonata. In fondo è grazie a lei se da grande farò la scrittrice. Ho scoperto di avere fantasia da vendere, care mie – esclamai con allegrezza.