La scuola
Massimo Lunardelli
C’era una volta, tra le strade e le case di una grande città, una scuola che a prima vista sembrava come tutte le altre. Aveva un mucchio di disegni colorati appiccicati alle finestre, le mura scrostate e annerite dallo smog e un’insegna sopra l’ingresso che diceva: SCUOLA ELEMENTARE NEIL ARMSTRONG (1).
Bastava però entrare, per capire che si trattava di una scuola davvero speciale. Non c’erano aule e i banchi erano sistemati alla rinfusa; ognuno si sedeva dove voleva, in fondo a sinistra se voleva ascoltare la lezione d’italiano; dalla parte opposta se preferiva la matematica; oppure nel mezzo, se decideva di ascoltare un po’ di storia e di geografia. “Mi raccomando bambini, cambiate spesso di posto!” ripeteva continuamente il preside, uno strano signore con le scarpe rosse e la cravatta gialla. “Dovete abituarvi a guardare le cose ogni volta da un punto di vista diverso.”
Sentite un po’ che cosa si imparava, in quella scuola davvero speciale. “Il verbo avere non esiste! è soltanto un’invenzione di chi vuole insegnare a comandare!” diceva il maestro d’italiano con il gessetto in mano. “Lasciate perdere i più, i meno, i per e i diviso. Non sono importanti, per le operazioni usate la calcolatrice!” sospirava quello di matematica, con i suoi capelli lunghi e dritti, in piedi di fronte alla lavagna. “Ammirate con quanta poesia si muovono i numeri bonaccioni e come possono crescere, quasi fossero piantine o fiori: 4,40,400, 4000…”
“Guai a voi se imparate le date a memoria!” sospirava l’insegnante di storia e geografia, in piedi sulla cattedra. “Non è importante sapere quando è nato Giulio Cesare e neppure con quali paesi confina la Groenlandia! Imparate piuttosto a capire bene perché certi fatti si sono svolti e che cosa li ha determinati!”
E poi, in quella scuola davvero speciale, si imparavano anche una sfilza di materie originali. Il martedì dalle 10 alle 11 per esempio, c’era L’Ora del Pensiero, in cui ognuno stava seduto a meditare sui fatti propri. Il mercoledì, dalle 10 alle 12 si giocava all’aria aperta. Il giovedì era la giornata dedicata alle invenzioni di ogni genere e per ogni età. E il venerdì si scendeva nel laboratorio, per tre ore di Smontaggio Computer e Televisione. Di voti, non se ne davano mai: “Chi sono io per giudicare? Se ti interrogo è soltanto per darti l’opportunità di capire quanto vali” dicevano i maestri.
Un brutto giorno, però, quella scuola venne comprata da un signore molto ricco che, oltre ad essere convinto di essere l’uomo migliore di tutto il creato, si era messo in testa di educare il mondo a modo suo: “Questa non è una scuola ma un casino! Basta con l’anarchia!, qui ci vuole ordine e disciplina!” sbraitò il primo giorno in cui entrò là dentro. E promise caramelle in premio, a chi si fosse comportato bene. Fece immediatamente costruire delle aule e obbligò gli scolari a vestirsi tutti uguali: grembiule nero per i maschietti, bianco per le femminucce. Bisognava inoltre pettinarsi in una certa maniera e andare a scuola con la cartella in ordine.
I vecchi insegnanti vennero licenziati e al loro posto ne arrivarono altri severi, tutti d’un pezzo. “Il verbo avere esiste eccome e da che mondo è mondo è il verbo più importante! Chi afferma il contrario è un ignorante!” diceva adesso l’insegnante di italiano. Quello di matematica, con il pancione, i baffi e le basette, era ancora più crudele: “Guai a chi non sa a menadito la tabellina del 43 gli metto zero sul registro! Lo boccio! Lo faccio stare per tre giorni in ginocchio sulle noci dietro alla lavagna!” sbraitava, con le guance rosse di rabbia.
Venne abolito l’intervallo, vennero abolite le vacanze, si andava a scuola anche la domenica. Le verifiche scritte e le interrogazioni erano un calvario. Bisognava sapere tutto a memoria: quanti chilometri quadrati misura la Francia? Come si chiamava la sorella di Annibale?; il fuoco è stato inventato di lunedì o di martedì? Di che colore è la bandiera dell’Uganda? Quanto è alto il Monte Bianco e quanto è profondo il Mare Morto? Quei poveri scolari non facevano altro che studiare, ma avevano smesso di ragionare e di pensare con la propria testa.
(1) Il primo astronauta che mise piede sulla Luna