Odissea
Se vi piace questa storia ringraziate zia Mariù. (27 aprile 2008).
Tutto ebbe inizio con il rapimento di Elena, da parte di Paride, un principe troiano.
Elena, regina di Sparta, era ritenuta la donna più bella del mondo. Il marito di questa, Menelao, grazie all’aiuto del fratello Agamennone radunò un incredibile esercito, formato dai maggiori comandanti dei regni greci e dai loro sudditi, muovendo così guerra contro Troia. Il conflitto durò all’incirca dieci anni. Fra le vittime più celebri l’invincibile Achille, principe di Ftia, ed Ettore, figlio del re Priamo. La città venne infine conquistata non con un atto di forza, ma con un inganno macchinato dall’astuto Ulisse, re di Itaca.
E così Ulisse, conquistata Troia, partì e una ad una le vele delle sue navi scomparirono all’orizzonte.
E dov’è se ne sarà andato vi domanderete voi?
Lo sanno gli dei, perché il destino degli uomini è nelle mani di Zeus, re di tutti gli dei.
Prima di partire per la guerra di Troia, Ulisse aveva sposato una donna molto bella e saggia di nome Penelope e avevano avuto un figlio: Telemaco.
Visto che Ulisse non tornò subito a casa dopo la sconfitta di Troia, una quarantina di giovani nobili, i Proci, credendo che Ulisse fosse morto, si erano fatti avanti per chiedere la mano di Penelope. Telemaco era cresciuto, aveva 20 anni e non aveva quasi mai visto il suo babbo Ulisse.
Quei giovani Proci, si comportarono in maniera indegna e in casa di Ulisse facevano da padroni. Dormivano nelle sue stanze, mangiavano ai sui tavoli, usavano le sue armi, insomma sembravano proprio a casa loro.
E dicevano a Penelope: “Penelope, tuo marito Ulisse è ormai morto, è inutile che tu lo aspetti ancora. Scegli uno di noi come sposo”.
Penelope, anche lei furba, iniziò a tessere una tela in-ter-mi-na-bi-le.
“Quando avrò finito di tesserla, sceglierò tra voi il mio nuovo sposo, abbiate pazienza!” Rispondeva Penelope.
Ma la regina di notte disfaceva la tela tessuta il giorno.
Poi però, qualcuno se ne accorse e: “Penelope, abbiamo scoperto che di notte disfi quanto tessi di giorno. Ora basta, devi scegliere uno di noi come sposo!”
Intanto alla corte di Zeus, Athena, la dea Pallade, mise a conoscenza di tale situazione il padre Zeus e insistette perché questi facilitasse il ritorno di Ulisse, prigioniero della bella ninfa di nome Calipso.
Zeus chiamò Ermes, il suo messaggero e lo fece volare da Calipso, che intanto si era innamorata del re di Itaca, e le fece dire che il re di tutti gli dei le ordinava di liberarlo.
E poi mandò Athena, sotto mentite spoglie, da Telemaco figlio di Ulisse e lo convinse ad andare a cercare suo padre.
“Telemaco, sii forte e ardito”, lo incoraggiò, “sali sopra una rapida nave e abbi fiducia in te”.
Temerario come suo padre Telemaco radunò alcuni amici fidati e chiese loro:
“Amici miei, partirò alla ricerca di mio padre, volete seguirmi?”
“Telemaco, noi siamo con te”, risposero i suoi amici.
Così prepararono in fretta una nave e senza dir nulla a nessuno e partirono.
Nel frattempo, il messaggero Ermes, aveva raggiunto la ninfa Calipso e le riferì gli ordini di Zeus. La ninfa amava Ulisse ma con le lacrime agli occhi ubbidì e liberò il suo prigioniero. Così in pochi giorni i marinai con Ulisse fecero una zattera e partirono.
Dopo tre settimane di tranquilla navigazione, quando Ulisse e i suoi amici erano prossimi alla terraferma, il dio del mare, Poseidone, si accorse che su quella zattera c’era proprio lui, Ulisse, in carne ed ossa. Poseidone era arrabbiatissimo con lui perché aveva ucciso il figlio Polifemo; e il dio del mare urlò:
“Scendi notte, venti accorrete in tumulto e cominciate a gonfiare e schiantare onde su onde verso l’imbarcazione di quei dannati.
Turbini… Diluvio… Tempestaaaaa…”
In breve fece disperdere i tronchi con cui era fatta la zattera di Ulisse.
Ulisse, ormai stremato nelle forze, riuscì però ad aggrapparsi a uno di essi e con tutta la forza che aveva resistette finché le acque non si calmarono.
Le onde e i venti lo portarono ad arenarsi su una spiaggia dove sfinito si addormentò.
Dopo alcune ore, grida gioiose di fanciulle, lo svegliarono:
“Aiuto Nausicaa”, gridò una di esse, “è qui disteso un uomo ricoperto di alghe, sembra respiri ancora”.
La bella principessa Nausicaa, capelli lunghi raccolti e con occhi neri neri neri, si chinò su quell’uomo misterioso e rivolgendosi ad egli con voce dolcissima:
“Sappi, straniero, che sei giunto nella terra dei Feaci sui quali regna Alcinoo, mio padre. Vedo che non sei un nemico, andando in quella direzione potrai raggiungere la reggia della mia famiglia”.
Ulisse si incamminò e, con l’aiuto di Athena invisibile, arrivò al palazzo di Alcinoo, dove venne accolto benevolmente. Il re pensò che quell’uomo era giunto fino a lui perché l’aveva mandato Zeus.
Interrogato dalla moglie di Alcinoo, Ulisse iniziò a raccontare le lunghe peripezie che lo avevano portato verso quella corte: la prigionia presso Calipso, il naufragio per la forte tempesta, l’approdo all’isola e l’incontro con Nausicaa. Ma il re, accortosi della stanchezza dell’uomo che aveva accolto, ordinò ai suoi servi di preparargli un giaciglio e fece una promessa ad Ulisse:
“Domani avrai in dono una nave per poter far ritorno alla tua patria. Ora dormi e, se vorrai, al tuo risveglio ci dirai il tuo nome”.
Il giorno dopo, alla corte del re, il naufrago rivelò il proprio nome, suscitando lo stupore di tutti, e continuò a raccontare le avventure che aveva vissuto prima del suo approdo all’isola di Calipso.
Alla gente che lo ascoltava a bocca aperta, raccontò che una spaventosa tempesta aveva fatto naufragare molte delle sue navi, dopo la vittoria a Troia. Raccontò anche che dopo una breve sosta in un’isola per far rifornimento di provviste, arrivarono nella terra dei Ciclopi, uomini giganti che abitavano enormi caverne.
Raccontò di quando con un gruppo di dodici uomini, si erano diretti verso una delle caverne portando doni e un grosso otre pieno di vino. Nella grotta però non vi era nessuno; si sederono e mangiarono; poco dopo udirono dei rumori: era il ciclope che spingeva dentro il suo gregge di pecore e subito dopo, con un grosso macigno, serrò l’ingresso ntrappolandoli dentro. Era Polifemo un gigante peloso con nel mezzo alla fronte un unico occhio lucido e rugoso.
“Chi siete stranieri?” Tuonò Polifemo.
“Siamo Greci, venuti qui per caso, e ti chiediamo ospitalità”. Rispose Ulisse senza paura.
Una vocina misteriosa e maligna però propose a Polifemo: “stendi la tua mano, agguanta due uomini e divorali!”
E così fece e mangiò alcuni marinai.
I marinai si impaurirono ma Ulisse, da vero capo e come se nulla fosse successo, rivolto a Polifemo: “Ora che hai mangiato, ciclope, bevi il nostro vino!”
E così il ciclope ingordamente bevve tutto il contenuto dell’otre e, prima di addormentarsi ubriaco, ad Ulisse domandò:
“Dimmi qual è il tuo nome, straniero?”
E Ulisse, sempre furbissimo, rispose: “Il mio nome è… Nessuno!”
Nessuno… Nessuno… Nessuno… ssuno ssuno ssuno fece eco nella grotta.
Dopo pochi istanti il ciclope cadde in un sonno profondo e cominciò a russare.
Ulisse accertatosi che Polifemo dormisse, rivolto ai suoi amici superstiti ordinò:
“Prendete quel tronco laggiù, con le vostre spade appuntitelo bene, io intanto preparerò il fuoco!”
Sulle fiamme scoppiettanti Ulisse fece arroventare la punta del tronco e poi…:
“Amici, vendichiamo i compagni uccisi e mangiati, poi fuggiremo!”
E Ulisse, con gran forza, spinse il palo nell’occhio di Polifemo, che entrò profondamente e glielo girò dentro.
Aveva ficcato il tronco dalla punta ardente nell’unico occhio chiuso del ciclope; questi fece un urlo spaventoso, si strappò dall’occhio il tronco, si alzò traballando e cominciò a chiamare i suoi fratelli ciclopi.
“Aiuto! Mi stanno uccidendo… Aiuto! Aiuto!”
E i fratelli sentendolo: “Polifemo, perché gurli così? Che ti succede?”
“Nessuno… mi sta uccidendo!”
“Se nessuno ti fa del male, sei ubriaco o sogni! Prega Poseidone, tuo padre, che ti aiuti”.
“Nessuno, Nessuno!” Urlava dal dolore Polifemo, rimasto oramai cieco.
All’alba, con difficoltà perché non vedeva e dopo aver tolto il macigno Polifemo si mise accanto all’uscita con le mani aperte, e tastò la groppa delle pecore pensando che Ulisse e i suoi uomini le potessero cavalcare, così da sfuggirgli.
Il re di Itaca e i suoi marinai stavano in silenzio, non sapendo come fuggire, poi, ebbero un’idea eccezionale: si aggrapparono alla grossa lana delle pecore ed uno ad uno riuscirono a scappare.
Si imbarcarono veloci e, dalla nave il prode gridò il suo vero nome: “Ulisse… Ulisse… Ulisseeeeee…!”
Infuriato Polifemo cominciò a scagliare grossi sassi in mare nel tentativo di colpire la nave, ma invano.
E disperato implorò suo padre: “Poseidone dai capelli azzurri, ascoltami! Se è vero che io sono figlio del mare e che tu sei mio padre, fà che Odisseo non riveda mai più la sua patria”.
Ulisse e i marinai si affidarono ai venti favorevoli e raggiunsero l’isola di Eea. In lontananza videro una casa. Prima di raggiungerla, un gruppetto di uomini andarono a controllare, ma uno solo ritornò alla nave, tremante e spaventato.
Il marinaio balbettando riferì: “Una donna bellissima ci ha offerto cibo e una bevanda, poi con la sua verga magica ha toccato i miei amici e li ha così tramutati in maiali; io sono riuscito a fuggire perché insospettito, non ho bevuto la bevanda che ci aveva dato”.
Armato, Ulisse si incamminò verso quella dimora; lungo la via incontrò Ermes, con le sembianze di un giovane, che gli disse:
“Bada, Ulisse! Non appena Circe ti offrirà da bere, sguaina la spada e minacciala di morte. Solo così puoi salvarti!”
Quando la maga si trovò davanti Ulisse lo guardò negli occhi e: “Chiunque tu sia, straniero, sei il benvenuto. Ecco, bevi questo e ristorati”.
Ulisse, che sapeva della furbizia della maga Circe, gettò a terra il bicchiere e in un lampo sguainò la spada puntandogliela sul petto.
“Io sono Ulisse e se vuoi salva la vita, ridammi i miei compagni”.
Circe, scaltra, lo tranquillizzò e lo fece ritornare alla tua nave con i suoi compagni ritrasformati in uomini.
La maga fece soffiare un vento favorevole che gonfiò le vele della nave di Ulisse e in poco tempo giunsero all’isola delle Sirene.
“Ulisse, ascolta le nostre voci armoniose. Ulisse… Ulisseeeee…” lo invitavano le sirene traditrici.
Ulisse, disperato per il bel canto delle sirene che uccideva chi lo ascoltasse, pur di udirlo chiese ai marinai di essere legato saldamente all’albero maestro della nave e ai suoi compagni fece tappare le orecchie con la cera, così che loro non potessero udire quei richiami ammalianti.
E le sirene cantavano: “Fermati sulla nostra isola, bell’Ulisse, guarda come siamo belle, fermarti con noi”.
“Stringete le corde e le catene. Più forte!” Urlava Ulisse ai suoi compagni.
E dopo tanti sforzi, con le braccia e le gambe segnate dalle corde e dalle catene, Ulisse riuscì a evitare il pericolo e, insieme ai compagni, continuò il suo avventuroso viaggio.
Arrivarono in un tratto di mare dove si incontravano furiose correnti marine e pericolo, pericolo! Da una parte, il mostro Scilla e dall’altra Cariddi, un altro mostro voracissimo, che formava vortici nelle profonde acque che con enormi onde salate inghiottiva le navi, per poi risputarle distrutte.
“Siamo riusciti così ad oltrepassare lo stretto e ci siamo lasciati dietro i due mostri e, dopo altre avversità, abbiamo raggiunto la vostra isola”.
Ulisse concluse così il suo racconto alla corte del re Alcinoo.
Il prode marinaio pensava alla sua Itaca lontana e vedendolo triste, il re Alcinoo, cercò di consolarlo: “Ulisse tu hai sofferto molto, ma ora potrai tornare a casa. La nave ti attende al porto e domani, se lo desideri, potrai partire”.
Ulisse salutò il re e gli augurò tanta felicità. Salì sulla nave, uscì dal porto e si addormentò. Dormì a lungo e nel frattempo, all’orizzonte: Itaca, la sua isola.
I marinai sbarcarono Ulisse ancora addormentato e lo distesero sotto un olivo.
Al suo risveglio, Ulisse si chiese dove fosse e all’improvviso gli apparve Athena, che lo tranquillizzò:
“Sei sulla tua isola re di Itaca, ma occorre che tu agisca con molta prudenza. Chiunque, vedendoti, ti potrebbe riconoscere”.
“Come posso fare dunque?” Rispose Ulisse.
Athena, con la verga magica, lo tramutò in un vecchio mendicante, e lo mandò a cercare il suo servitore Eumeo il quale gli era sempre stato fedele. Athena lo informò che suo figlio Telemaco era a Sparta e lo stava cercando proprio alla corte di Menelao; Ulisse trovò Eumeo che non lo riconobbe; egli nonostante non lo avesse riconosciuto gli offrì da bere.
Ulisse, trasformata la sua voce per non farsi riconoscere, gli chiese se era vero che del re di Itaca se ne fosse persa traccia.
“Dimmi il suo nome”, gli chiese Ulisse con la voce mutata, “chissà che non ne abbia notizie io che ho viaggiato molto”.
“No vecchio, inutile illudersi. Ulisse, è ormai morto!”
“Dimmi, Eumeo, ha ancora un padre, Ulisse? Ha ancora una madre?”
“Certo che ha ancora un padre. È Laerte, l’uomo più buono che conosco. Ora vive in una capanna. Quanto alla madre, è morta, morta di crepacuore”.
Intanto Telemaco, sollecitato da Athena, ritornò a Itaca e si avviò verso la capanna di Eumeo il fedele amico e servitore. Entrato, salutò lui e l’ospite e pregò Eumeo di andare alla reggia per avvisare sua madre Penelope del suo ritorno.
Intanto, sempre nella capanna, Athena con una formula magica rifece tornare Ulisse nelle sue vere sembianze: e lo fece riconoscere a Telemaco suo figlio che lo abbracciò.
Ulisse però si fece promettere di non dire nulla a nessuno del suo ritorno, neanche alla regina Penelope sua moglie.
“Vai al palazzo, ragazzo mio”, disse Ulisse a Telemaco, “prendi le armi che trovi appese alle pareti della sala e nascondile. Tieni pronte per noi due lance, due spade e due scudi. Ora và, presto!”
Athena, riapparsa, trasformò di nuovo Ulisse in un vecchio.
Telemaco, tornò alla reggia, a tranquillizzare la madre Penelope.
Ulisse mendicante, poco dopo, si incamminò verso il palazzo reale.
Durante il percorso incontrò il suo vecchio cane Argo. Questo lo riconobbe subito, scodinzolate gli girò intorno, lo annusò e lo salutò, ma dopo poco si accasciò a terra e dalla felicità, per aver visto il suo padrone, morì.
Ulisse pianse, un profondo affetto li univa e non lo avrebbe mai dimenticato ma, pur commosso, entrò ugualmente nel palazzo e ancora travestito da mendicante cominciò ad elemosinare tra la musica e i Proci seduti a banchettare.
Mentre chiedeva degli avanzi, un altro medicante lo insultò. “Iro, siamo tutte e due poveri, perché mi insulti? Mangia e bevi, non provocarmi se vuoi tornare a mangiare ancora in questa sala!” Gli disse Ulisse che già in passato lo conosceva.
E l’altro mendicante non riconoscendolo: “Ma sentite come parla questo vagabondo straccione! Vuoi batterti con me che sono più giovane e più grosso?”
I principi Proci cominciarono a battere le mani perché volevano vedere chi era il più forte tra i due mendicanti. Solo al vincitore sarebbe stato permesso di mangiare i loro avanzi.
Subito Iro attaccò Ulisse, ma il re di Itaca pronto come una molla gli sferrò un forte pugno che lo stese a terra come un tappeto, lo prese per una gamba e lo trascinò fuori nella polvere.
Poi rientrò in sala, accolto con un mormorio di stupore.
Attratta dalle acclamazioni, fece ingresso nella grande sala dei banchetti, la bella Penelope che si rivolse al figlio Telemaco.
“Mi hanno detto, figlio mio, che quest’uomo è stato insultato e percosso. È ben triste che ciò accada sotto il tetto della reggia di Ulisse! Ogni straniero, qui è sacro. Voi, principi, con il vostro comportamento mi offendete!”
E detto ciò, Penelope si ritirò nelle sue stanze. I Proci continuarono il banchetto e dopo aver cenato se ne andarono.
Ulisse nella confusione chiamò Telemaco: “Presto, figlio mio, prendiamo le armi appese e nascondiamole. Se i Proci se ne accorgeranno, di’ che le hai mandate a lucidare”.
Ma mentre Ulisse parlava piano con Telemaco Penelope sentì e: “Straniero, chi sei, da dove vieni?”
“Che ti importa chi sono? Vengo dalla lontana Creta”. Rispose Ulisse con il capo abbassato e voce roca per non farsi riconoscere.
Penelope lo guardò. Era passato tanto tempo, il suo sposo era invecchiato ed era travestito da mendicante. La regina non riconobbe suo marito, il re.
“Hai visto”, disse Penelope, “i Proci esigono che mi decida a sposare uno di loro. Ho resistito per dieci anni, ma non posso più continuare. Sono riuscita ad ingannarli con un semplice trucco: tessevo un lenzuolo per Laerte, il padre del mio sposo, e di notte disfacevo la tela tessuta. Sono però stata scoperta”.
Ulisse avrebbe voluto abbracciare sua moglie, ma non voleva che i Proci si accorgessero del suo ritorno ad Itaca, lui li voleva sconfiggere tutti!
E così disse a Penelope: “Mia regina, devo rivelarti una cosa io ho visto il tuo sposo a Creta”.
“Tu menti! Rispose Penelope, con il cuore che gli batteva forte”.
“No, mia signora. Ho saputo che Ulisse sta tornando a casa”.
Allora Penelope si avvicinò ad Ulisse vestito da mendicante e: “Vorrei tanto crederti, ma ormai devo decidermi. Domani farò piantare a terra, in fila, le dodici grandi scure del mio sposo; ognuna di esse ha un anello. Ulisse riusciva a lanciare una freccia attraverso tutti gli anelli, lui era invincibile. Ecco, proporrò questo ai Proci”.
Ulisse, che era stato sempre un campione nel tiro con l’arco, disse a Penelope che aveva avuto una buona idea.
“Ma vedrai, ancor prima che i Proci possano tendere l’arco, il tuo sposo sarà tornato”. Aggiunse con persuasione Ulisse.
Penelope si ritirò nella sua camera, anche Ulisse provò, invano, a dormire.
Al mattino, preparata la sala per la competizione, arrivò Eumeo con un aiutante, portando diversi capi scelti tra i migliori delle greggi. Come al solito arrivarono anche i Proci che cominciarono a banchettare. Le voci cessarono quando apparve Penelope con in mano un grande arco e una faretra ricolma di frecce. Era l’arco di Ulisse e nessuno mai era stato capace di tenderlo.
Si alzò Antinoo, un principe dei Proci: “Sono pronto! Accetto, e così faranno anche gli altri”.
“Avanti amici, disse Antinoo! Vediamo chi di noi si merita la regina Penelope!”
Telemaco, il figlio di Ulisse, anche lui prese l’arco ma invano, tentò di tenderlo.
“Ahimé! Sono troppo giovane, non riesco!” Esclamò.
Ulisse, chiamati fuori Eumeo e l’aiutante, si fece riconoscere:
“Ebbene, eccomi, sono io Ulisse il vostro re; Eumeo guarda questa cicatrice, la riconosci?”
Entrambi i due servitori restarono come folgorati e capirono che quel mendicante era il loro re, Ulisse, tornato per liberarli.
“Per favore”, disse umilmente Ulisse ai nobili principi, “lasciate che anch’io tenti di piegare quell’arco, solo per vedere se ho ancora la forza di un tempo. Non certo per avere in sposa la bella Penelope!”
Antinoo gli rispose con prepotenza: “Vecchio, cosa pretendi? Mangia e non metterti in gara con i giovani”.
Allora Penelope: “Antinoo, non si trattano così i miei ospiti. Di che cosa hai paura? Che io lo sposi, se riesce?”
Nel frattempo Eumeo porse l’arco ad Ulisse. Egli lo impugnò e senza fatica lo tese, incoccò una freccia, prese la mira e la freccia sibilando attraversò tutti gli anelli, andando a spuntarsi contro la parete. I Proci rimasero stupefatti.
Ulisse saltando agilmente su un tavolo gridò: “La gara è finita! E ora tirerò ad un altro bersaglio”.
La seconda freccia la tirò mirando Antinoo, che stramazzò a terra.
“Bestiacce! Pensavate che non sarei più tornato a casa! Ebbene, eccomi! La vostra ora è giunta!”
I principi Proci presi dalla paura cominciarono a fuggire, a supplicare in ginocchio Ulisse.
Ma egli, non ebbe pietà e li trafisse uno ad uno.
Una cameriera andò a chiamare Penelope: “Penelope! Vieni a vedere. È accaduto ciò che per anni hai desiderato, il tuo sposo è tornato e ha fatto giustizia dei Proci! Vieni tu stessa a vedere. Ulisse è tornato!”
“Vuoi prenderti gioco di me, vecchia?” Rispose Penelope dubbiosa.
Ma non fece in tempo a finire la frase che Ulisse era lì, in piedi davanti a lei.
“Mamma, mamma”, disse Telemaco, “lo vedi il tuo sposo è tornato, è proprio lui”.
Ma Penelope non si fidava.
Telemaco lasciò soli padre e madre, che si raccontarono alcuni ricordi della loro vita e si abbracciarono felici per essersi ritrovati.
Ulisse passò la notte a raccontare alla moglie tutte le sue avventure e al mattino andò a trovare suo padre Laerte.
Il padre quando lo vide si mise a piangere dalla commozione. “No, padre mio! No, non piangere! Io sono Ulisse! Io sono tuo figlio! Sono tornato e con l’aiuto di Athena, di mio figlio Telemaco, di Eumeo, ho compiuto vendetta sui Proci che offendevano la mia famiglia. Nessuno di loro è più vivo!”
E Laerte: “Sei davvero tu, figlio mio? Dammi un segno!”
Ulisse scoprì la gamba e mostrò al padre una vecchia cicatrice, una ferita che gli aveva fatto un cinghiale ad una battuta di caccia. Allora Laerte abbracciò suo figlio Ulisse, ringraziando Zeus il re di tutti gli dei.
E Zeus, dall’olimpo, rivolto a tutti: “Facciamo che Ulisse regni in pace, che i morti siano dimenticati e che torni ad Itaca la pace che sia duratura e che ci sia saggezza e ricchezza”.