La rapsodia garibaldina

Giovanni Marradi

rapsodia garibaldina

I
Alto, a cavallo, mentre il sol dilegua
dietro i templi dell’Urbe, alla Coorte
Garibaldi parlò: Nessuna tregua!
Lascio Roma, che cede oggi al più forte,
ma non lascio la guerra. Volontari:
v’offro fame, battaglie, agguati, morte.
Chi vuol, mi segua. E al Duce, fra gli spari
delle francesi artiglierie più fitti,
si strinsero, acclamando, i Legionari.
E quel lacero gruppo di sconfitti,
quel mitragliato avanzo, ultimo e stanco,
d’audacie eroiche, d’epici conflitti,
mosse via dietro Lui, via dietro il bianco
puncio del Duce, cui l’invitta Anita
tacitamente cavalcava al fianco.
Debole e incinta, pallida e sfiorita,
l’ardita Donna, dall’Eroe travolta
nel turbinoso vol della sua vita,
seguì ombra fedele anche una volta
L’Eroe suo biondo in quella tragica ora
in quella notte perigliosa e folta,
verso l’ignoto. Come rossa aurora
boreale, nel buio, qualche tetro
baglior d’incendio fiammeggiava ancora,
e, quasi faro di trionfo dietro
lo stuol fuggiasco, ne splendea per l’aria
la jeratica volta di San Pietro.
Durò tutta la notte; obliqua e varia,
sfuggendo alle vittrici soldatesche,
la taciturna marcia leggendaria;
fin che all’alba sostò su tra le fresche
tiburtine ombre, fluttuando il piano
di baionette ispaniche e tedesche,
dense nei campi come a giugno il grano.

II
Nel silenzio di Tivoli, già insigne
di sacre Muse ospizio, tra sfumate
di pallido vapor selvette e vigne,
crosciava alla quieta alba d’estate
l’Anio spumante, memore d’Orazio,
chiamando al fresco delle sue cascate;
e per l’ultima volta, in breve spazio
sparsa fra il verde, bivaccò la schiera
di Garibaldi sotto il ciel del Lazio:
mentre Egli, in faccia alla velata austera
del pian malinconia fermo in arcione,
(né un soffio movea l’aurea criniera)
guardava assorto nella visione
del gran sogno di Roma, consacrato
dal miglior sangue della sua Legione.
E rivide, per quel sogno, l’alato
impeto di Mameli e di Montaldi
procomber su lo spaldo fulminato;
e sanguinar Manara co’ suoi baldi
bersaglieri piumati, un contro mille,
fra una selva di punte immoti e saldi;
e cascar Bixio, ardente Achille,
e Morosini piegar come un giglio,
e Villa Spada in cenere e in faville,
e Roma vinta… Fumido e vermiglio
il sole uscìa, fra umidi vapori,
sul mesto agro di Roma e sul periglio
del Cavaliere suo. Con precursori
lampi appressavan, rapida minaccia,
le baionette dei trionfatori.
E lo stuolo fuggiasco, senza traccia
lasciar di sé, come uno stuol di larve,
dinanzi all’oste sguinzagliata in caccia,
dall’opposto pendìo scese, e disparve.

III
Tutto quel luglio andò così, più scarsa
di giorno in giorno, la fedel Coorte,
trafelata, affamata, assetata, arsa,
da quattro eserciti inseguita a morte
fra gente ostil, fra l’odio e la paura
che le sbarravano in faccia le porte
come a masnada di briganti, in dura
continua marcia sotto lo stellato,
sotto la fiamma della gran caldura,
via, d’ansia in ansia, d’agguato in agguato,
per impervio selvaggio erto cammino,
dietro al suo Duce come dietro al Fato,
ché nel cor di quel Duce era il destino
d’Italia. Per la verde Umbria selvosa
valicò ansando l’eremo Appennino;
ruinò col Metauro in tortuosa
corsa pei greppi verso l’Adria gialli,
pei borri della Marca montuosa;
scese, ascese, ristette: E all’ime valli
ogni sbocco chiudean, presso e lontano,
siepi di sciabole irte e di cavalli.
Come accerchiata belva, il Capitano
sta fra il bosco d’acciar che lo circonda,
a te guardando, o arduo Titano;
e per quel bosco minaccioso a fonda
notte serpendo, attinge cauto a volo
la tua libera vetta al sol gioconda.
Primo, davanti allo sbandato stuolo,
reggendo Anita sua egra e sfinita,
salutò San Marino, ospite suolo.
Poi calò al mare. A nuova corsa ardita
pochi animosi or ne seguiano i passi;
ma gli batteva accanto il cuor d’Anita,
e un gran cuore di martire: Ugo Bassi.

IV
L’Austria bandì: Sarà pagata a peso
d’oro la testa del filibustiere
Giuseppe Garibaldi. Chi sia preso,
in mare o in terra, ai monti o alle costiere,
della sua banda, e chi ricetti o aiuti
quei campati alle forche e alle galere,
sarà impiccato. Ed ecco verso i muti
lidi, dell’Adria che solingo fiotta
e dalle ronde austriache battuti,
ecco arrancare un palischermo in lotta
con la grossa marea, ferocemente
cannoneggiato dall’austriaca flotta;
ed ecco, a notte, su le sonnolente
dune gittarsi un naufrago, portando
sopra le braccia una donna morente,
e cacciarsi nel buio. A quando a quando
fra le cannucce e il brago della valle
palustre affonda, arrestasi alenando.
E Garibaldi sentesi alle spalle
la pesta dei gendarmi e dei croati,
sente, nell’ombra, sibili di palle.
E va e va, cercando agli assetati
labbri d’Anita un gocciol d’acqua nelle
profondità dei botri e dei fossati,
un gocciolo di fresca acqua per quelle
fauci anelanti che la febbre asciuga
nell’afa della notte senza stelle.
E va e va, mentre la ronda fruga
ogni frasca ogni covo ogni romito
angolo. Non più corsa, ora, ma fuga:
fuga di cauto leone inseguito
che si rimbosca, cupido di strage,
contenendo nel gran petto il ruggito,
e sbarrando nel buio occhi di brage.

V
E Anita muore. Quella bruna testa,
che passò fra i baleni alta e tranquilla
sotto un perpetuo rombo di tempesta
langue riversa, mentre il vespro brilla,
sopra un guancial pietoso, aprendo immota
sul dolce Eroe la vitrea pupilla.
Fisando ancor la cara faccia nota,
ecco velarsi l’occhio moribondo
che una lenta lacrima le nuota,
e tutto a quel velato occhio profondo
impallidire su la ravegnana
pineta il cielo e scolorire il mondo.
Come un lamento d’anima lontana,
nella penombra che quieta scende,
piange per l’aria un pianto di campana.
Anita muore. Levasi e s’accende
quel cereo viso a un tratto: al guardo inerte
forse una estrema vision risplende.
Oh verdi, interminabili, deserte
distese della Pampa! Oh pascolanti
saure, del fren della sua mano esperte!
Ivi ella crebbe con l’alte erbe ondanti,
ivi Ei le apparve, biondo come il sole,
e la guardò con gli occhi scintillanti…
Sfumavasi in pallori di viole
l’adriaco vespro, e all’amor suo sul petto,
fra quell’umili mura ignote e sole,
ella piegò. Con ansioso affetto
Ei la chiamò, chiamò con passione
impetuosa il bel nome diletto;
e in desolata disperazione
la violenza del compresso duolo
dal cor gli uscì. Quel core di leone
poteva ormai ben piangere: Era solo.

 

Fonte dell’immagine: Pagina di un quaderno di componimenti scritti dell’alunno Giulio Scarabellotto, frequentante l’Istituto “Umberto Maddalena” di Firenze.

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