Re tuono
Luigi Capuana
C’erano una volta un Re che aveva un vocione così grosso e forte, da poter essere udito benissimo fino a dieci miglia lontano. Quando parlava pareva tuonasse; e perciò gli avevano appiccicato il nomignolo di Re Tuono.
I ministri e le persone di corte, dovendo dialogare con lui tutti i giorni, diventavano sordi in poco tempo; ed era una disperazione. La povera gente che andava a chiedere giustizia ci rimetteva un polmone per farsi sentire, e spesso spesso non riusciva. Gli affari andavano a rotta di collo; la gente non ne poteva più.
Ma, come dire al Re:
– Maestà, siete voi che fate assordire i ministri?
Il Re credeva di parlare con lo stesso tono di voce di tutti gli altri; e quando i ministri, diventati sordi, non udivano più neppure lui, s’arrabbiava e li mandava via a calci, facendoli ruzzolare per le scale del palazzo reale.
Nei primi giorni, coi nuovi ministri le cose andavano benino. Parlando con loro però, il Re s’accorgeva ch’essi, di tanto in tanto, portavano le mani agli orecchi per tapparseli.
– Che è mai? – domandava. – Strillo forse come un maleducato, come un carrettiere?
– No, Maestà! – rispondevano impauriti. – Soffriamo di orecchioni.
I nuovi ministri soffrivano sempre di orecchioni per scusa. Il Re non si capacitava di questa malattia così comune a tutti i suoi nuovi ministri. E, alla fine, aveva pensato di rimediare, dandoli anticipatamente in cura ai medici di palazzo. I medici li martoriavano con cataplasmi, ventose, salassi e altri malanni; e loro, per l’ambizione di salire alto e avere le mani in pasta, sopportavano zitti ogni tormento.
Il Re andava a visitarli, e alzando la voce nel dubbio che quella malattia degli orecchi non li facesse sentire bene, domandava:
– Come state? Come state?
Figuratevi che tuoni, con quell’alzata di voce! Il palazzo reale ne tremava.
– Bene, Maestà! Benissimo, Maestà!
E stavano bene davvero, perchè erano già mezz’assorditi.
Il Re intanto credeva che gli affari del suo regno procedessero proprio a meraviglia. Nessuno gli chiedeva mai un’udienza; nessuno veniva mai a fargli un reclamo. Sfido io! Ognuno aveva paura, e preferiva ogni altro guaio a quello di restar sordo per tutta la vita.
Un giorno si presentò al palazzo reale un contadino:
– Voglio parlare al Re.
Il Re, stupito di questa novità, ordinò subito:
– Fatelo entrare.
Squadrando quel vecchietto mal vestito, che faceva cosa tanto insolita, il Re s’accorse ch’egli aveva due tappi di sughero negli orecchi.
– Che significano quei tappi?
– Maestà, ho gli orecchioni.
O che tutti i suoi sudditi soffrissero di orecchioni? Insospettito, disse:
– Non me la dai a bere, contadinaccio! Che significano quei tappi? Parla, o ti faccio mozzare la testa.
Tra il diventar sordo e l’aver mozzata la testa, il contadino scelse il male minore.
– Grazia, Maestà, se volete che dica il vero.
– Grazia ti sia concessa.
E lui gli disse quel che nessuno aveva osato mai dirgli:
– Maestà, col vostro vocione fate assordire la gente.
Dapprima il Re montò in furore; non voleva credergli. In che modo egli non s’accorgeva del proprio vocione? Ma il contadino soggiunse:
– Tant’è vero, che Vostra Maestà viene chiamato Re Tuono.
Il Re fu afflittissimo di questa scoperta. Tentò di frenar la voce, di sussurrare più che pronunciare le parole; ma era inutile. Anche parlando a quel modo, il suo vocione era tale, che chi stava a sentirlo restava intronato. E per punire i ministri che non avevano avuto il coraggio di palesargli la verità, li fece legare come polli e li mandò in prigione. Il contadino, invece, fu da lui creato unico ministro, e ebbe il permesso di tenere i tappi di sughero negli orecchi.
Il povero Re, addolorato di quel suo difettaccio, non usciva più dal palazzo reale, dava gli ordini soltanto coi gesti. Ma era vita quella? Poteva durare?
Fra le altre cose, egli voleva prendere moglie per avere l’erede della corona; ed ora si spiegava facilmente tutte le ripulse ricevute dalle tante principesse da lui richieste. Le principesse non volevano diventar sorde, e per sfuggire questo pericolo rinunziavano al beneficio di diventare Regine.
Il contadino ministro disse un giorno:
– Maestà, perché non consultate un Mago? Io sospetto che il vostro vocione provenga da qualche maleficio che voi avete addosso.
Il Re decise di fare un bando. E volendo andare per la più corta, giacché il suo vocione poteva essere udito da dieci miglia lontano, salì sul tetto del palazzo reale e fece il bando da se stesso, ingrossando la voce più che poteva:
– Chi saprà guarirmi dal vociooone, avrà tant’oro quanto peeesa!
E andò in giro per tutto il regno, salendo in cima alle montagne, gridando da quelle alture:
– Chi saprà guarirmi dal vociooone, avrà tant’oro quanto peeesa!
In pochi giorni non ci fu angolo del regno dove il bando non fosse conosciuto. E quei tuoni della voce del Re erano stati così forti, che per un paio di settimane piovve a dirotto, quasi avesse tuonato davvero. Intanto i mesi passavano, uno dietro all’altro, e nessun Mago si presentava.
Il povero Re Tuono cominciava già a disperare, quando una mattina vennero ad annunziargli l’arrivo di un famoso Mago, venuto da lontani paesi; diceva di conoscere il segreto della malattia del Re e la ricetta per guarirlo.
Alla vista di quel Mago, così grasso e grosso che pareva una botte, il Re si grattò il capo, pensando:
– Ce ne vorrà dell’oro per costui!
Ma si strinse nelle spalle, pronto a qualunque sacrificio. Avrebbe dato fin la camicia che aveva indosso, pur di guarire.
– Maestà, – disse il Mago, – il vostro male proviene da un capello incantato.
Il Re si rallegrò tutto.Si sarebbe fatto radere la testa e sarebbe finita. Il Mago doveva contentarsi d’una bella mancia, ora che s’era lasciato scappar di bocca il suo segreto.
– Solamente, – riprese colui, – bisogna trovare e strappare quel capello a prima vista. Sbagliato una volta, non si rimedia più. E l’unica persona al mondo che può fare il prodigio è la principessa Senza-lingua.
– O dove scovare codesta principessa?
– In Oga Magoga. La chiamano così perché le manca la lingua. Un anno, un mese e un giorno e la vedrete qui, se Vostra Maestà, mantenendo la promessa, mi dà tant’oro quanto peso.
– Prima di fare l’esperienza?
– Prima, Maestà. Condurrò con me, da ambasciatore, il vostro ministro.
Per un momento, il Re esitò: se quel furbo lo canzonava? Dove riacchiapparlo?
Il ministro poteva intendersela con costui… “In ogni caso” rifletté “mi rifarò coi miei sudditi.”
Gli piangeva il cuore, guardando la montagna d’oro che ci volle per pareggiare il peso di quella botte. Pur di guarire!
E diede il buon viaggio al Mago e al ministro.
Passati appena sei mesi, eccoti un giorno il ministro solo solo; il Mago era sparito, e della principessa Senza-lingua nè nova nè novella. S’era messa in viaggio, dicevano, per farsi fare una lingua artificiale, non si sapeva da chi; e nessuno, da un anno, ne aveva avuto più notizia.
– Cercate e troverete. Il destino del Re vuole così!
Erano parole del Mago.
– Facciamo un altro bando! – esclamò il Re molto seccato.
E volendo andare per la più corta, salì di nuovo sul tetto del palazzo reale, e fece il bando da se stesso, ingrossando la voce più che poteva:
– Chi trova la principessa Senza-liiingua, avrà tant’oro quanto peeesa!
E andò in giro per tutto il regno, e poi fuori del regno, in diverse parti del mondo, salendo in cima alle montagne e gridando da quelle alture:
– Chi trova la principessa Senza-liiingua, avrà tant’oro quanto peeesa!
E i tuoni della voce del Re furono così forti, che piovve dirotto dovunque, quasi avesse tuonato davvero.
I mesi passavano, uno dietro all’altro, ma neppure una mosca recava notizia della principessa.
Re Tuono cominciò a perdere la pazienza. Ora, invece di affliggersi e star zitto, urlava, sbraitava. Parte dei suoi sudditi era già assordita, parte stava per assordire, e tra questi che ci sentivano male e gli altri che non ci sentivano più accadevano scene buffe che, spesso spesso, finivano a legnate e peggio. Il regno pareva in tumulto. Le guardie accorrevano di qua e di là; ma, essendo più sorde di tutti, ora davano ragione a chi aveva torto, ora torto a chi non c’entrava per niente, e accrescevano la babilonia in luogo di dissipare i malintesi.
Aveva voglia, Re Tuono, di gridare alle guardie:
– Fate giustizia! Fate giustizia!
Più lui gridava e più assordivano. Il regno sembrava un paese di matti.
Un bel giorno, davanti al palazzo reale comparve un ciarlatano che strillava:
– Pasticche per la voce! Pasticche per la voce! Chi l’ha, la perde; chi non l’ha non l’acquista! Pasticche! Pasticche!
Re Tuono, trattandosi di voce, la prese per un’offesa alla sua reale maestà; e dette ordine di arrestare quell’impertinente e condurglielo dinanzi.
– Che intendi dire con codesto tuo: “Chi l’ha, la perde e chi non l’ha non l’acquista?”.
– La verità, Sacra Corona. Provi e vedrà.
Il Re lo guardava fisso. Dal vestito, colui pareva un uomo; ma le fattezze del volto erano così belle e gentili, che si sarebbe detto una donna, se non avesse avuto i capelli corti.
– Chi sei? Come ti chiami?
– Mi chiamano il Senza-lingua. Ma sua Maestà vede bene che il mio nome è sbagliato; ce l’ho e un po’ lunghetta, anzi… Il mio mestiere richiede così.
E per prova, senza badare che si trovava nel palazzo reale e alla presenza del Re, riprese a strillare scherzosamente, come in piazza:
– Pasticche per la voce! Pasticche per la voce! Chi l’ha, la perde; e chi non l’ha non l’acquista! Pasticche! Pasticche!
Il Re, diventato di buon umore, si mise a ridere.
– Da’ qua; voglio provare.
Ne prese una e la mise in bocca.
O che fu? Un tocca e sana? Il vocione del Re era calato di metà.
Va’ a trattenere Re Tuono! Si buttò sulle pasticche come un galletto al becchime; e mangia, mangia, mangia… le inghiottiva mal masticate, col pericolo di strozzarsi… mangia, mangia, mangia… le finì tutte in pochi istanti.
Parlò, e il suo vocione parve sparito sottoterra. Re Tuono non era più Re Tuono, con quella vocina cosi fievole che si poteva udire a mala pena. Per capirne le parole, bisognava accostargli l’orecchio alle labbra, e farvi coppa attorno con le mani.
Meglio così!
Dalla contentezza, il Re ordinò che si facessero grandi feste per tutto il regno, con giochi, cuccagne e fontane di vino schietto.
– Che cosa vuoi? – disse a quell’uomo. – Chiedi e avrai.
– Colazione, pranzo e cena tutti i giorni, e nel palazzo reale una stanza dove non deve entrare neppure il Re.
– Così poco? Ti sia concesso!
Avendo ora la vocina flebile flebile, il Re s’infastidiva di sentir parlare fin con la voce ordinaria.
– Perchè urlate? – rimproverava a tutti. – Non sono mica sordo!
Star due minuti ad ascoltarlo era proprio uno sfinimento; ognuno si sentiva mancare il fiato. Col praticare con lui e col doversi sforzare a parlar piano, in breve tempo tutto il personale di palazzo, dal ministro allo sguattero, si ridusse effettivamente senza voce. E mentre, dopo la guarigione del Re, gli orecchi guastati dal suo vocione andavano guarendo senza bisogno di medicamenti, le voci, e per riguardo del Re e per adulazione e poi per capriccio di moda, cominciarono ad abbassarsi, ad abbassarsi; e quello che poco prima era un paese di sordi, ora poteva dirsi proprio il paese degli sfiatati.
Soltanto l’uomo delle pasticche, che mangiava a ufo e abitava nel palazzo reale, soltanto lui udiva il Re senza bisogno di accostargli l’orecchio alle labbra nè farvi coppa con le mani, e poteva parlare con lui senza abbassare il tono della voce.
Come andava questa faccenda? Sua Maestà non gli aveva detto mai, come agli altri: “Perchè urlate? Non sono mica sordo!”. Eppure lui gli parlava sempre con la voce naturale ch’era un po’ strillante. Aveva dunque la lingua fatta diversa dagli altri?
La curiosità della gente si accrebbe il giorno che il venditor di pasticche andò in furia, perchè uno gli aveva detto per scherzo:
– Mostrami la tua lingua! Voglio vedere, com’è fatta.
Non c’era niente di male in queste parole; ma lui, infuriato, pestando i piedi e piangendo, era andato a chiudersi nella sua camera del palazzo reale e non voleva uscirne più, perchè nessuno potesse più dirgli:
– Mostrami quella tua lingua! Voglio vedere com’è fatta.
Il ministro venne a parlargli in nome del Re:
– Perchè ti arrabbi? Vogliono vedere la tua lingua? E tu mostragliela, sciocco! Così!
E fece l’atto. L’altro, sbadatamente, lo imitò; ed ecco la lingua scappargli di bocca, cadere per terra e farsi in mille pezzi quasi fosse stata di terracotta.
Il ministro rimase! Poi si dette un gran colpo alla fronte, e corse subito dal Re:
– Maesta, Maestà, la principessa Senza-lingua! Oggi si compiono precisamente l’anno, il mese e il giorno.
Il palazzo reale fu a un trattò sossopra. La gente affollata dietro l’uscio voleva entrare in quella camera e vedere la principessa Senza-lingua. Invano il Re diceva:
– Non può entrarvi nessuno, neppur io; ho data la mia parola.
Chi lo sentiva? Lo vedevano gesticolare con le braccia e muovere le labbra, quasi fingesse di parlare. Il ministro accostò l’orecchio alla bocca del Re, facendo coppa con le mani; ma il Re, infuriato, con uno spintone lo sbatacchiò addosso alla folla.
Per fortuna, in quel punto l’uscio della camera s’aprì, e tutti stupirono alla vista del gran mucchio d’oro sovra cui stava comodamente sdraiata una bellissima giovane, vestita di broccato, ornata di perle e diamanti, con le bionde trecce sciolte su per le spalle, la faccia appoggiata a una mano, e un gran ventaglio nell’altra. Si faceva vento tranquillamente.
Il mucchio d’oro era proprio lo stesso regalato dal Re al Mago, grosso quanto una botte.
Il Re, in un baleno, si gettò ai piedi della principessa e le posò la fronte sulle ginocchia. Ella lasciò il ventaglio, stese la mano, gli ficcò un dito tra i capelli e dette uno strappo. Il capello incantato fece una fiammata e le svaporò fra le dita.
– Grazie, principessa Senza-lingua! Grazie, mia Regina! – disse il Re, col più bel suono di voce che nessuno avesse mai udito.
– Grazie, Re Tuono, mio signore e mio Re!
Insieme con l’incanto dell’uno era sparito l’incanto dell’altra. La principessa aveva acquistata la lingua, come le aveva predetto il Mago adattandole quella artificiale caduta poco prima per terra.
– Il vostro destino voleva così! – disse il ministro. – Dovevate essere sposi.
E ora posso andarmene.
– Perchè mai? Perchè?
Il Re non finì di dire queste parole, che il ministro, diventato un nanino vispo vispo, si ficcò, come un topolino, tra il mucchio dell’oro e sparì. Era un servitore delle Fate.
Contenti come Pasque, il Re e la principessa si sposarono, con feste e divertimenti d’ogni sorta.
Il Re perdonò ai ministri, li fece scarcerare e li rimise in carica. Non correvano più pericolo d’assordire.
– Faranno sempre i sordi! Vedrete, – pronosticò la gente.
E il pronostico non fallì.
Maturo è il frutto, secca la foglia;
Dite la vostra, chi più n’ha voglia.