Il mistero della città fantasma

COP. torre nera
Il mistero della città fantasma

di Domenica Luciani
Giunti Editore
Collana “Gru Oro”
2007

Arrivo alla Nipitella

Che aspetto aveva lo spettro dell’Infame Illusionista? Tutti ne sussurravano con paura, ma nessuno ancora lo aveva descritto. Io me lo immaginavo avvolto in un mantello blu notte e con un turbante scintillante in testa; il viso bianco come la cera, un ricciolo unto sulla fronte e due baffetti sottili come freghi fatti con la biro. Mi teneva sulla corda da un sacco di tempo, scalpitavo dalla smania di incontrarlo. Ho tirato un profondo respiro e ho stretto il pollice e l’indice.
L’ho fatto: ho girato pagina.
– Che palle, non esiste! – ho gridato esasperato cinque minuti dopo. – Possibile che a pagina cinquantasette ancora ‘sto scemo di fantasma non sia apparso a nessuno?
– Gaspare, non dire parolacce! – ha tuonato la mamma. – Che figura ci farai fare coi nonni del tuo amico?
– Se sono i suoi nonni saranno allenati ai ragazzi strafottenti – ho grugnito io, scagliando sul lunotto ‘La maledizione dell’Infame Illusionista’. Poi mi sono allungato sul sedile e ho sbadigliato.
Papà mi ha sorriso dallo specchietto retrovisore.
– Non mi sembri tanto contento di andare in vacanza… – ha ridacchiato.
Io mi sono tirato su gli angoli della bocca coi pollici.
– Ma se sto esplodendo dalla felicità come un airbag che sta per convolare a nozze!
– Che paragone sarebbe? – ha fatto la mamma.
Uno dei miei paragoni megagalattici. I comuni modi di dire non rendono mai l’idea.
Approfittando di uno stop, papà si è sporto dal finestrino e ha gesticolato a un tizio che arrancava sotto il sole. Aveva due scarpe da jogging grosse come tavole da skate-board, però per sua sfortuna senza rotelle.
– Vado bene per Budrecchio di Sotto? – gli ha chiesto. – Non ho trovato ancora un’indicazione.
Purtroppo andava bene. Il joggista gli ha detto di proseguire per altri duecento metri e poi di girare a sinistra al cartello con su scritto ‘Agriturismo degli Dei’. Pare infatti che l’agriturismo fosse meglio segnalato di quel buco di paese.
Era neanche un quarto d’ora di strada. Un quarto di giro di lancette e sarebbero iniziate ufficialmente le mie sciagurate vacanze.
In un tentativo di sparire dal mondo, sono rotolato giù nello spazio fra il sedile posteriore e gli schienali di quelli davanti. Un ottimo posto per meditare, a parte il grumo di chewing-gum che mi si è appiccicato ai capelli ed è rimasto lì a meditare anche lui.
Perché avevo accettato l’invito di Bruno? Perché non avevo preferito partire per il Mar Rosso con mamma e papà? Cavolo, ormai era troppo tardi per fare marcia indietro: i miei erano così contenti di passare una seconda luna di miele senza me fra i piedi, che avevano fissato due settimane in un resort vietato ai minori di diciotto anni. Niente mocciosi nell’arco di tre chilometri, una bella botta di vita.
Ho provato a staccare il chewing-gum, ma ormai si era troppo affezionato al mio scalpo. Va be’, chi se ne fregava. C’erano cose ben peggiori nella vita: come quella piaga rognosa e purulenta di Bruno. Lui diceva che io ero il suo migliore amico e in un certo senso era vero, visto che ero l’unico a reggerlo per due minuti di seguito. Perché era molesto e malignetto come un tafano dopato fino agli occhi.
– Il paesaggio non è male – ha detto papà. – Belle case coloniche. Come hai detto che si chiama la tenuta dei nonni di Bruno?
– Un incrocio fra ‘Nutella’ e ‘Svampitella’, non mi ricordo – ho borbottato io.
Papà ha scalato in seconda marcia.
La leva del cambio e il freno a mano erano tutto quel che riuscivo a vedere dalla mia postazione. La strada doveva essere uno sfracello perché la macchina sussultava manco avesse il morbo di Parkinson.
– Veramente, guarda che scorci incantevoli – ha aggiunto la mamma. – Mi sa che Gaspare se la spasserà un mondo!
Mi sa tanto di no, ho pensato io. A meno che non fossi riuscito a sbarazzarmi in qualche modo di Bruno per concentrarmi sui miei due Obiettivi Primari. Lo ammetto: era per loro che avevo detto di sì, condannandomi a due settimane di compagnia forzata con quel rompiballe. Ero forse un kamikaze, ma mica un idiota!
In effetti, sceso di macchina davanti alla grande casa colonica (segnalata dal cartello ‘La Nipitella di Alceste Breschi: tutto l’anno ortaggi freschi’), prima ancora di adocchiare anima viva, ho avvistato l’Obiettivo Primario Numero Due. Papà l’ha fatto mezzo secondo dopo di me.
– Ehi, Gaspare, hai visto che forza quel trattore? – ha esclamato mollando un fischio di ammirazione. – Gigantesco!
La mamma si è tirata una borsata in fronte per scacciare un tafano (di quelli veri, però).
– Ma che ci fa parcheggiato davanti a casa? – ha chiesto.
– Aspetta me – ho risposto io. – Bruno ha detto che suo nonno può farmelo guidare quando mi va. Con lui accanto, naturalmente.
Del resto, il sedile era talmente largo che ci sarebbe stato posto per due persone (con sederi un po’ ristretti).
Proprio un gioiello di trattore come aveva detto Bruno, che aveva aiutato il nonno a sceglierlo dal catalogo on-line. Non arancione come quello vecchio, ma di un azzurro fosforescente che brillava sotto il sole come un moscon d’oro king-size.
Stavo proprio per avvicinarmi a dare una tastatina ai pneumatici, che una trottola umana mi è piombata addosso all’improvviso scaraventandomi sul selciato. Malgrado ci fossero ciottoli duri dappertutto, ho sbattuto la testa contro qualcosa di morbido.
– Vecchio Gasp! – ha urlato la trottola, alias Bruno, attaccando a farmi il solletico sulla pancia.
Io gli ho mollato un calcio nello stomaco.
– Okay, Bruno, adesso vedi di piantarla! – ho gridato. Poi ho afferrato la gamba di papà e mi sono rizzato in piedi inferocito.
Lui si è messo in posa da ninja, sporgendo il mento in avanti. Non gli passava neanche per la mente che magari ai miei genitori non avrebbe fatto schifo uno straccio di saluto. Menomale che ci ha pensato la mamma.
– Ciao Bruno, ma come sei cresciuto! – ha esclamato tentando di dargli un affettuoso scalpellotto.
Bruno ha fatto un salto all’indietro, emettendo un urlo da cavernicolo.
– Cinque centimetri! – ha strillato.
‘Cinque centimetri di tormento in più’, ho pensato sgomento.
In quella è arrivato il Sor Alceste, cioè il nonno di Bruno. L’ho riconosciuto perché l’avevo visto nel video della Prima Comunione del mio – diciamo così – amico (ebbene sì, un prete senza scrupoli gli aveva impartito il Supremo Sacramento). Aveva gli stessi basettoni bianchi e la stessa camicia giallina coi bottoni fatti a carota che si vedeva in un primo piano, seduto su una panca della chiesa. In chiesa però non brandiva un badile terroso.
– Ecco il famoso grande amico – ha detto appoggiando il badile al trattore. – E questi devono essere i suoi genitori!
La mamma gli ha dato la mano con un sorriso; papà, oltre a quella, gli ha mollato anche il mio trolley da viaggio. Io infatti ero già impicciato dallo zaino e dalla borsa coi miei libri horror.
– Non sappiamo come ringraziarla dell’ospitalità che darà a nostro figlio – ha detto papà.
E la mamma ha attaccato a dire con quest’aria falsissima:
– Vero, lui non vedeva l’ora di stare con suo nipote Br…
Solo che non ha fatto in tempo a finire la frase.
– Hai della cacca sui capelli! – ha urlato Bruno con una risata sganasciante. – Ganziale, gente! Gasp ha un ciuffo caccoso!
Siccome tutti mi fissavano, io mi sono tastato la capoccia e ho preso a dire:
– Non è affatto cacca, è solo chewin… –
Ma le parole mi sono morte in gola quando ho avvicinato al naso la mano che avevo appena ritirato dalla testa. Doveva essere cacca davvero, visto che ancora non era stata inventata una gomma da masticare all’aroma di poppò.
– E’ cacca eccome! – ha urlato Bruno. – Ci sei tonfato sopra quando sei finito per terra!
Ecco spiegato l’atterraggio morbido. Ma Bruno non doveva passarla liscia. Così ho stretto i pugni e ho sibilato:
– Già, e chi sa chi è stato a mandarmi a gambe all’aria!
Il Sor Alceste ha afferrato al volo, pur non avendo assistito alla graziosa scena di benvenuto fra me e Bruno. Si è rabbuiato e ha alzato un indice contro il nipote, iniziando a balbettare qualcosa. Al che papà, imbarazzato a bestia, lo ha battuto sul tempo cambiando argomento seduta stante.
– Mi chiedevo quanto potesse costare un trattore come quello – ha sparato di punto in bianco.
Il Sor Alceste si è rabbuiato ancora di più.
– Un patrimonio – ha risposto, – un fracco di soldi che a quanto pare ho buttato dalla finestra.
– Come sarebbe? – è intervenuta la mamma.
Prima che il nonno potesse aprire bocca, il malefico nipote ha allargato le braccia in modo plateale. Poi è crollato in ginocchio urlando:
– Signori e signore, vi presento una fregatura coi cingoli: un trattore DISABILE!
Per farla breve: il trattore non camminava, non partiva manco se lo prendevi a calci nel di dietro (Bruno ha dato una dimostrazione pratica). Motore, batteria, candele… Il Sor Alceste non sapeva da che cavolo dipendesse. Ad ogni buon conto, era ancora in garanzia e perciò era stato piazzato lì nell’aia in attesa che il camion della ditta se lo riprendesse.
Dopo aver salutato i miei genitori, sono entrato in casa con la testa (non solo zozza), ma anche china e rivolta a terra come quella di un avvoltoio intento a farsi il bidè. Non era passata mezz’ora dal mio arrivo alla Nipitella che già avevo ricevuto una bella mazzata: l’Obiettivo Primario Numero Due era KO.

***

L’atrio era buio e pervaso da un tanfo di escrementi. Lì per lì ho pensato che fosse colpa del mio ‘berrettino’ di cacca, ma poi ho scorto una lettiera per gatti gigantesca. Non scherzo, era grande quanto il plastico del mio trenino elettrico! Però mancavano i binari: c’erano solo montagnole di ghiaia, dalle quali qua e là emergevano relitti di ‘vagoni merci’ marroni – tanto per usare un linguaggio abbastanza ferroviario.
– E’ il gabinetto di Max e Moritz, Gasp! – ha detto Bruno in tono seccato. – Cos’è, non hai mai visto un cesso per gatti?
– No… cioè sì, naturalmente – ho risposto io. Poi, per darmi un contegno, ho aggiunto: – Max e Moritz? Nomi originali!
Bruno ha fatto un sogghigno: la classica espressione di quando vuole beccarmi in castagna.- Scommetto uno spintone salato che non sai manco chi sono! – ha esclamato.
– Be’, me l’hai appena detto tu: sono i gatti dei tuoi nonni!
Bruno si è battuto le mani sulle cosce e, iniziando a ballonzolarmi intorno, ha gridato:
– Non lo sai, non lo sai!
Dopo qualche minuto di questa pantomima e parecchi ululati all’indiana, è venuto fuori che Max e Moritz erano i nomi di due monelli di una specie di antico fumetto tedesco inventato da un certo Wilhelm Busch. A me non sembrava un’informazione d’importanza vitale, ma Bruno insisteva dicendo che ero un bell’ignorante a non saperlo.
D’un tratto si è zittito di botto e con mossa fulminea mi è balzato alle spalle. Intuendo uno spintone salato in arrivo, io sono scartato di lato, andando a inciampare nel mio trolley. Manco a dirlo, sono rovinato di nuovo per terra. Stavolta però sono piombato su un paio di piedi enormi e deformi, infilati in due ciabattacce di sughero.
I piedi hanno retto bene l’impatto, vacillando appena. Difatti erano ancorati al suolo da degli artigli adunchi e nerastri come quelli di un rapace notturno afflitto da calli.
– Per tutte le patate nuove dell’orto, ragazzo, ti sei fatto male? – ha chiesto l’arzilla proprietaria di quelle zampe mostruose.
Ho scosso la testa e ho alzato gli occhi, incrociando quelli piccoli e acquosi della Sora Gertrude, la nonna di Bruno. Anche lei era immortalata nel video della Comunione del nipote. Però di faccia, non di piedi, altrimenti l’avrei riconosciuta subito.
– Gasp ha dei problemi con la legge di gravità – ha ridacchiato Bruno, slacciandole il grembiule con un indice a gancio.
Lei gli ha appioppato una repentina mestolata in testa, oltretutto assestata parecchio bene.
– Sciò, pidocchio! – gli ha gridato risentita. Bruno è scappato su per i gradini di pietra di uno scalone che in quell’oscurità avevo appena intravisto.
– Addio, gente! – ha urlato. – Vado a fare qualcosa di grande!
La Sora Getrude ha scosso la testa. Poi si è riallacciata il grembiule e si è infilata il mestolo in un tascone a marsupio. Io frattanto mi ero rialzato e così le ho stretto la mano che mi porgeva.
– Piacere, sono la nonna di quell’impiastro – ha detto con aria corrucciata.
– E io sono l’amico – ho sospirato.
Lei mi ha accarezzato la testa, per fortuna dalla parte del chewing-gum. Poi mi ha portato in un cucinone di quelli col caminetto, il tavolo fratino e le panche di legno tutte tarlate. Era talmente stipato di roba che perfino i muri erano ingombri: sulle varie mensole c’erano libri, un vecchio lume a petrolio, una donnola impagliata e una collezione di ciotole del Mulino Bianco; appesi a vari chiodi c’erano panieri sforacchiati che dovevano essere stati intrecciati da un ubriaco, più una batteria di pentole di rame tutte abbottate; qua e là, infine, secondo l’estro dell’arredatore, ciondolavano salami, salsicce e scaccini per mosche.
La Sora Gertrude mi ha fatto sedere al tavolo e mi ha offerto una spuma bionda, calda e svaporata come il piscio. Poi ha tuffato il mestolo nella pomarola che stava preparando e mi ha fatto delle domande: tipo, com’era andato il viaggio e se ero contento di essere loro ospite per due settimane. Siccome ho fatto del mio meglio per mostrare a quella brava donna un po’ di entusiasmo, lei ha osservato:
– Spero proprio che ti troverai bene qui, Bruno a parte… – e, dopo una pausa, ha aggiunto pensosa: – Che ci vuoi fare, non tutte le ciambelle riescono col buco: a me è venuta prima una perla rara di nipote, e poi, un anno dopo, mi è toccato quel foruncolo sul sedere di suo fratello.
Io mi sono drizzato di scatto sulla panca.
– E dov’è adesso quella perla rara? – ho chiesto con finta noncuranza.
La nonna del foruncolo ha agitato il mestolo per aria in direzione della finestra.
– E’ andata a portare un cesto di radicchio ‘all’Agriturismo degli Dei’ – ha risposto. – Dovrebbe tornare a momenti.
Celeste era alla Nipitella! L’avrei rivista fra qualche istante! Il cuore ha preso a battermi la grancassa in petto dalla felicità. Un attimo dopo, però, mi sono ricordato di com’ero conciato e così sono schizzato a razzo al piano di sopra a farmi un bagno profumato. Miseria, non volevo certo farmi sorprendere con la zucca caccosa dall’Obiettivo Primario Numero Uno!
In quattro e quattr’otto sono riuscito a buttare fuori dal gabinetto Bruno – come annunciato, aveva fatto qualcosa di grandissimo e si era pure scordato di tirare la catena. Poi sono zompato giulivo dentro la vasca, riempiendola fino all’orlo.
Mi sentivo leggero come la schiuma che mi arrivava fino al gozzo. Celeste.. Che le avrei detto quando me la sarei ritrovata davanti? Non certo: ‘Sono pazzo di te dalla prima volta che ti ho vista prendere a schiaffi Bruno’ e nemmeno: ‘Perché non ci sposiamo e non facciamo insieme tanti piccoli Celestini?’. No, dovevo essere più discreto e conquistarla pian piano con qualche battuta e un po’ di galanteria. In ogni caso, dovevo azzardarmi a parlarle un po’ di più. Difatti finora tutto quel che le avevo detto era stato: ‘C’è Bruno?’ e ‘Ti è caduto un Pringle dentro la canottiera’.
Prima di uscire dal bagno ho cercato di guardarmi nello specchio. Sfumato il vapore che l’appannava, mi sono aggiustato i boccoli scuri con una ditata di gel. Ero un bell’esemplare di maschio latino, come diceva sempre la mamma. Diceva anche che fra qualche anno le donne mi sarebbero cadute ai piedi. Ci speravo proprio, anche se per ora ero sempre io a cadere sui piedi della gente.
Mentre scendevo le scale trepidante, ho sentito venire dalla cucina la sua vocetta, che pareva quella di un fringuello teen-ager. Dopodiché ho visto il solito turbine molesto venirmi incontro sui gradini. Bruno mi ha agguantato un polso trascinandomi giù con foga.
– Dai, Gasp, vieni a conoscere Axel! – ha gridato.
– E chi sarebbe? – ho fatto io.
– Uno ganziale al cubo – ha risposto lui: – il fidanzato di Celeste!
Gaspare, mi sono detto, la cacca ha colpito il ventilatore.

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