Di notte sui tetti, corsari perfetti

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Di notte sui tetti, corsari perfetti

di Domenica Luciani
Giunti
2002

La Catastrofe

Avete presente le giornate no? Cominciano tutte uguali: fila al bagno per fare pipì (per una frazione di secondo in cui hai ricacciato la testa sotto il cuscino, ti sei perso il diritto di pisciare per primo – dice il saggio: ‘chi è fesso perde il posto al cesso’); a colazione scatola vuota di corn flakes (‘cielo, ma perché non lo dite mai quando sono finiti?’, sospira la mamma); il diciannovesimo punto delle merendine del Mulino Bianco per prendere l’elicottero Lego finito nel bidone della spazzatura, tra i fondi di caffè e gli stronzetti della cassetta dei gatti; per strada, un ventaccio di tramontana che ti fa pensare che col cavolo è arrivata la primavera e porca l’oca non ho preso la sciarpa; e, a scuola, una sublime figura di cacca in geografia.
La prof mi becca alle spalle, mentre sto sperimentando l’alfabeto cordale con Amina. L’alfabeto cordale è una mia invenzione, ma preferisco non dirvi cos’è perché non vorrei mi fregaste il brevetto. Insomma, mi prende a tradimento, intercettando la cordicella che unisce il mio banco a quello di Amina e dando un sonoro strattone. Io mi volto di scatto.
– Allora vediamo se Martino, invece di giocare al tiro alla fune con sua sorella, ci sa dire dov’è il ‘tetto del mondo’… – sibila la prof.
– Il tetto… ehm… del mondo… è… -, farfuglio io, attorcigliandomi la cordicella al dito. – Molto in alto!
– Molto in alto dove? -, insiste la prof.
Io stringo convulsamente la cordicella fra le dita. Amina, dall’altro capo, molla tre strattoni lunghi e due brevi. ‘Una ‘T’!’, penso.
– T…Tunisia? -, sparo.
La prof mi guarda annuendo lentamente, con studiata malvagità.
– Tu a lezione dormi sempre vero? -, dice.
Qui arrivano tre strattoni brevi. Una ‘I’!
– Ti… Ticino? E’ nel Canton Ticino, in Svizzera? -, azzardo.
– Dormi, dormi e sogni anche! -, grida la prof.
La catastrofe è prevedibile. I soliti Tre attaccano il coretto e stavolta la prof non li zittisce nemmeno:
– Fra’ Martino campanaro dormi tu, dormi tu? Suona le campane din, don, dan, suona le campane din, don , dan!
Poi, invece delle campane, suona miracolosamente la campanella, proprio quando Amina mi trasmette una ‘B’ con la cordicella. La sgamo con la prof, che ha lezione con quelli di terza, ma non coi Tre, che arrivano a bomba al mio banco, sempre cantando a squarciagola.
– Fra’ Martino campanaro, dormi tu, dormi tu… -, eccetera eccetera.
– Che palle, piantatela! -, strilla Amina. Poi mi scuote per un braccio, sussurrandomi all’orecchio: – Funziona! Fino al ‘TI’ c’eri arrivato, no?
– Funziona un cavolo… Perché non mi hai trasmesso anche le altre lettere? – bisbiglio io.
– Ma non ho fatto in tempo…-, sussurra di rimando Amina.
– Rieccoli a complottare i due gemelli siamesi… -, fa il Tirri (uno dei Tremendi Tre).
– Ma cos’avranno mai da parlare sempre così fitto fitto fra loro? -, dice il Lenzi (un altro dei Tre.)
– E sì che li hanno anche separati di banco… -, aggiunge la Tagli (la rappresentante femminile del malefico Terzetto).
– Scema! Non sai che i gemelli siamesi sono inseparabili? -, esclama il Lenzi.
Be’, così almeno la piantano con la solfa di fra’ Martino campanaro. In fondo non è colpa mia se sono nato l’undici novembre, che è il giorno di San Martino, e se i miei genitori mi hanno chiamato così. Insomma, sarebbe stato peggio se fossi nato il 23 febbraio (San Policarpo) o il 9 maggio (San Geronzio), no? E non è nemmeno colpa mia se qualche volta mi incanto a pensare alle mie invenzioni, che trovo molto più istruttive della roba che ci insegnano a scuola. Il tetto del mondo… cacchiate! E poi, come fa il mondo ad avere un tetto se non ci ha manco un soffitto? Lo dice anche il saggio: ‘E’ un idiota chi l’ha detto, sol le case ci hanno un tetto’.

Però le giornate no non finiscono con la campanella della quinta ora, cioè con la fine della giornata scolastica. Nossignore, una giornata no che si rispetti prosegue anche a casa, dove in genere fa capolino a tavola, fra gli spaghetti scotti e la fetta di manzo coi nervetti disgustosi.
– Ti ho visto, hai dato la carne a Kodless! -, tuona papà.
– Quella bestia creperà d’indigestione -, borbotta la nonna.
– Proprio bello stare ai fornelli tutta la mattina per ingrassare i gatti! -, esclama la mamma.
– Ma ci sono i nervetti… -, mormoro io.
– Martino ha ragione… -, interviene Amina.
– Quando mai tuo fratello ha torto? -, dice papà.
La discussione va avanti un pezzo, però senza di me. Io faccio finta di masticare ad occhi bassi, e intanto allungo a Kodless altri due bei bocconcini. Lui se ne frega dei nervetti. E’ un gatto rotto a tutto, un vero tosto. Un giorno è tornato da uno dei suoi giri nei giardini del quartiere senza coda. Era rimasta sotto il tosaerba del signor Pieroni, il nostro vicino, che ce l’ha riportata la sera stessa tutto mortificato. Kodless l’ha guardata con disprezzo, come per dire, sai che me ne frega della mia vecchia coda. Così si è guadagnato il suo nome che gli ho trovato io, perché un gatto senza coda è come un telefono senza filo, cioè un cordless.
Ma il clou arriva al dessert, con lo strudel fatto dalla nonna. A parte il fatto che lo strudel è un dolce che mi fa schifo, perché ha un ripieno molliccio fatto di roba sospetta (potrebbe essere di tutto, dai fiori marci alle caccole fresche), papà pensa bene di darci una notizia intonata alla giornata.
– Sarà bene che oggi pomeriggio vuotiate il capanno in giardino -, dice ad Amina e a me. – E che buttiate via tutte le cianfrusaglie che avete accumulato!
– Qualcuna però la terremo, e la porteremo nella nuova casa… -, fa Amina.
– … cioè nel nuovo capanno! -, aggiungo io fiducioso.
– No, tesori miei: si dà il caso che nella nuova casa non avremo un giardino e tantomeno un capanno! -, dice papà con un certo sadismo.
– NIENTE GIARDINO? -, urliamo in coro io e Amina. Nei momenti cruciali della nostra vita io e mia sorella diciamo spesso delle frasi in coro.
Certo, niente giardino. E’ già tanto aver trovato una casa di sei stanze a un affitto ragionevole. Mica è il caso di lamentarsi, no?
– Ma perderemo il giardino… -, mugola Amina.
– Non perderemo un bel niente, dato che questa casa non è nostra -, sentenzia papà
– Ovvio, se fosse stata nostra mica ci avrebbero dato lo sfratto, no? -, dice la mamma. Il ragionamento non fa una grinza. Io però ho un nodo in gola. Il giardino: il nostro covo segreto, la nostra stanza dei giochi senza soffitto, il nostro laboratorio all’aperto, il paradiso dei nostri adorati gatti… Giusto, i gatti!
– Ma come faremo con Kodless e Modem? Loro sono abituati al giardino, non credo sopporteranno di starsene chiusi in casa… -, faccio con voce quasi supplichevole. Adesso sarei pronto a ingollare una bistecca intera tutta nervetti più tre strudel di moccio doc pur di riavere il mio giardino.
– Creperanno di claustrofobia -, dice la nonna cupa.
– Ma no, c’è una bella terrazza sul tetto. E i gatti adorano i tetti! -, esclama la mamma.
– Non Kodless e Modem: non sono mai saliti su un tetto in vita loro, cadranno di sotto! -, grido io alzandomi in piedi. Mi sento la faccia bollente e mi trema la voce. Sto per piangere, cavolo.
– Ma che dici, i gatti ne sanno una più del diavolo! -, ghigna papà.
– Cadranno, i tetti sono pericolosi! -, urlo io. Amina mi guarda terrorizzata, stringendosi Modem al petto.
– Vedo già le loro pellicce insanguinate sul marciapiede. – dice la nonna tetra.
Amina soffoca un urlo, spaventando il gatto che schizza via urlando uno dei suoi ‘modem’. Modem non sa fare ‘miao’ come gli altri mici, lui dice sempre e solo ‘moooodem’. Ecco perché si chiama così.
Papà è davvero alla frutta, anche se invece siamo al dessert.
– Basta con queste storie! – grida. – Giardino o non giardino, gatti o non gatti, ormai andremo in quella casa! E guai a voi se sento ancora una parola…- Dopodiché si alza da tavola, dando uno spintone alla sedia.
– Spiaccicati al suolo -, mormora la nonna chiudendo il pranzo in bellezza.
Io afferro Kodless sottobraccio e corro a chiudermi nel capanno, seguito da Amina. Qualche secondo dopo siamo accucciati sulla nostra stuoia con certe facce lunghe così. Nessuno dei due ha voglia di cominciare a sgombrare tutte le cianfrusaglie, ovvero gli oggetti preziosi che abbiamo raccolto in anni e anni di duro lavoro nelle soffitte private e nei cassonetti pubblici.
– E’ una sciagura incalcolabile. Non sopravviveremo senza giardino -, dico io tirando su col naso.
– Ti prego, Martino, non fare il catastrofico come la nonna -, implora Amina a bassa voce.
– Me la friggo una terrazza sul tetto -, grido furioso. – Mi fa schifo, ci sputo sopra!
Lancio uno sputo fuori della circonferenza della nostra stuoia, centrando il povero Pilade in pieno muso. Niente di grave, lui ci è abituato, visto che lo pulisco sempre con lo sputo. A proposito, Pilade è una delle mie invenzioni più geniali: una torcia a batterie semovente telecomandata con la faccia di un alieno. Ci serve a camminare in giardino al buio evitando di pestare la cacca dei gatti. Cioè, ci serviva…
– Sai cosa non mi va proprio giù? -, confessa Amina ad un tratto. – L’idea che quelli che traslocheranno a casa nostra dopo di noi abbiano un bambino e che questo bambino…
– Basta, non dire altro! -, urlo io. Non voglio neanche sentirlo dire: un odioso bambino che si aggira nel nostro giardino, entra nel nostro capanno, gioca nel nostro covo.
Non so quanto restiamo in silenzio a fissare la nostra miniera di tesori, ascoltando il vento fischiare attraverso le fessure del tetto di lamiera. Mi tornano in mente tutte le giornate eroiche passate nel capanno, a giocare di primavera sotto l’ombrello aperto perché ci pioveva dentro, d’estate col ventilatore acceso perché si andava arrosto. E il nostro giardino incantato, dove ogni angolino, ogni filo d’erba e ogni singolo sasso ha il suo soprannome: viuzzo del Formicaio, cimitero dei Topi (un buco nel muro di recinzione, dove Kodless ammucchia le sue vittime), piazza Stronzini (dove i gatti ce la scodellano di preferenza). Mi sento già le lacrime agli occhi, quando la porta del capanno si apre di scatto. Appare la nonna con uno sciarpone al collo. Con gesto brusco, ci butta addosso le nostre giacche a vento e i guanti di lana.
– Sarà bene che vi mettiate questi, se non volete beccarvi una polmonite tripla. Questo capanno sarà la vostra tomba!
Be’, non mi dispiacerebbe essere sepolto qui. Così il capanno sarebbe mio per sempre. E di notte il mio fantasma si aggirerebbe per il giardino, terrorizzando con le sue urla l’odioso bambino dei nuovi affittuari.

Alla fine della classica giornata no o parte la corrente mentre sto finendo una ricerca al computer (che ovviamente non ho salvato), oppure, mentre sono in seduta impegnativa sul cesso, scopro che il rotolo di carta igienica è finito e che ho sprecato stoltamente l’ultimo fazzolettino di carta per allenarmi a fare canestro nel cestino della carta straccia. Stavolta però, scongiurate queste due catastrofi, capita qualcosa di peggio. Mentre sono a letto a ripassare storia (con Kodless acciambellato sui piedi che fa le fusa come un motorino) papà entra in camera con uno stradario in mano.
– Ecco dove fra poco abiteremo -, dice con l’indice puntato su un rettangolo giallo compreso nel quadrante B – 7.
– Cioè? -, faccio io.
– Un bell’isolato nel quartiere delle Cure Alte, una zona molto signorile… -, risponde lui.
Amina si affaccia sulla porta in pigiama e fa la faccia stupita.
– Ma è dall’altra parte della città! – esclama di botto.
Papà non sembra averla sentita. Continua a dire che è una zona un sacco fine: figurarsi che del ‘nostro’ isolato fa perfino parte palazzo Ghislieri, che è praticamente un monumento cittadino.
– Ma papà è un quartiere lontanissimo! -, insiste Amina.
– E allora? -, sbotta lui. – Perderemo i vecchi vicini e ne acquisteremo di nuovi – e di più fini. Almeno non correremo il rischio che il nostro gatto torni a casa senza coda.
– Sì ma la nostra scuola… -, obietto io.
La nostra scuola è a un tiro di schioppo e Amina e io ci andiamo a piedi. Papà sbuffa irritato: per ora cambiare scuola neanche a parlarne (visto che il secondo quadrimestre ormai è iniziato); e allora che sarà mai andare a scuola in bus o in automobile? Che sarà mai alzarsi un’oretta prima? O magari anche un’oretta e mezzo? Uno scherzetto, soprattutto per uno come me che nella vita passata doveva essere un ghiro e che vorrebbe una notte fatta di trentacinque ore. Lo confesso: faccio onore al mio nome e al suonare le campane preferisco di gran lunga il dormire.
Qualche minuto dopo, al buio, chiudo gli occhi cercando di addormentarmi. Ma c’è un pensiero che mi tormenta: l’odioso bambino che si alza alle otto e venti, fa colazione alle otto e venticinque ed entra in classe puntuale alle otto e trenta. Sprofondo nel sonno odiandolo ancora di più.

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