Diritto di volare

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Diritto di volare

di Sofia Gallo
Collana ‘Extra’
Giunti editore
2010

Elena, studentessa universitaria e militante, ricerca la sua strada esistenziale insieme ai suoi coetanei negli anni caldi della politica post ’68. Il romanzo, ambientato a Torino e non solo, è adatto a giovani dai 16 anni in su e può costituire una lettura interessante anche per gli adulti.

Sento che discute, di padroni, di paghe, d’ingaggi giornalieri, di tangenti sul pescato, di mafia nella distribuzione del pesce congelato, di concorrenza con i tunisini. Botte e risposte mi giungono sfumate. Mi siedo su un’enorme bitta a cui non è legata alcuna cima e guardo i movimenti di carico e scarico dei pescherecci e lui va e viene dietro di me con un tizio e poi con un altro. C’è un vento leggero, la salsedine si appiccica sui capelli e sulle mani e le voci si smorzano e intanto passano le ore e l’acqua diviene nera come la pece e io ho deciso che vado alla stazione, quando riuscirò a smagnetizzarmi dalla calamita di questo mare, con Ernesto o senza, vado alla stazione e torno a Torino.
Faccio per alzarmi, quando lui arriva di soppiatto alle mie spalle. Mi tocca lieve e mi fa scostare leggermente in modo da sedersi di fianco a me.
“Hai visto che mare?”, dice in un sussurro.
Appoggio la testa sulla sua spalla e lui mi fa una carezza leggera. Avessi le ali di un gabbiano volerei via legata a lui e mi tufferei nelle onde nere per non mettere mai più i piedi per terra, né camminare tra spine e arbusti, ma solo fluttuare nell’acqua, trasportata da un amore senza confini. Sono pazza di lui.
Lui si tira su, mi gira la testa e mi fissa negli occhi.
“Che diavolo sei venuta a fare? Qui resistono solo i siciliani veraci, con la scorza dura, le orecchie tese e la mano al coltello. Che fa un angelo indifeso come te? Una ragazza bene, con la passione per il balletto. Tu, che appari e scompari, fanciulla triste…”.
Ernesto avvicina la sua bocca alla mia e mi sfiora le labbra e poi le ricerca e le schiude e si allontana e le riappiccica e fruga dolce, amaro, sospiro, amore mio.
Seduti di sghimbescio su una bitta di un porto che esala odor di pesce, con l’eco delle grida dei pescatori siculi e tunisini, scivola il secondo bacio di un’unione impossibile, evanescente e ferrea al contempo, quasi che una mano invisibile ci facesse incontrare e poi di nuovo incontrare e poi ancora incontrare e chissà cosa ci riserva il futuro.
“C’è un treno alle 10 e mezza per Torino – mi dice Ernesto staccandosi piano dalle mie labbra. Guarda l’ora e aggiunge. – Ti porto subito alla stazione”.
Il treno è in ritardo: è lì pronto a partire, ma non parte, come se avesse capito che dobbiamo ancora dirci qualcosa e noi seduti su una panca fredda di cemento ci raccontiamo tutto. Le parole non dette sgorgano ora come acqua tenuta prigioniera che si fa strada tra le rocce, e a cascata scorrono la paura, il vuoto, l’assenza di stabilità, di affetti, la solitudine e l’ansia di fare, fare per gli altri, di cambiare, di viaggiare per conoscere e capire. Ernesto parla di sé con timidezza e reticenza, non mi dice tutta la verità, ne omette una parte, c’è qualcosa che lo lega, che gli impedisce di dirmi: “Ti amo, anch’io sono pazzo di te”.

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