La Scuola Infernale

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La Scuola Infernale

di Domenica Luciani
Feltrinelli Kids
2004

Uno

Perché non so dire bugie? Perché non so sparare balle come tutti i normalissimi ragazzi della mia età? Porco diavolo, se non fossi così schifosamente sincero, non mi sarei cacciato nel guaio più grosso che sia mai capitato a un dodicenne tranquillo e pacioso come me. Né sarei finito a capofitto nell’avventura terrificante che mi ha spalancato le porte dell’inferno… E non per modo di dire!
Del resto, cosa c’è di più infernale dell’ora di matematica con la professoressa Tanturli? Già, perché tutto è cominciato appunto nell’aula di classe nostra, precisamente nel metro quadrato compreso fra la lavagna e la cattedra. Lì mi trovavo io col gessetto in mano, un comune venerdì mattina d’inizio primavera, intento a dimostrare il teorema di Pitagora – che sono pronto a scommettere non mi servirà mai a un cavolo di nulla nella vita (colpa di Pitagora che, dopo aver azzeccato le tabelline, ha voluto strafare). Insomma, stavo appunto recitando la menata a memoria: – Nel triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente…-, che ho sentito una fitta improvvisa allo stomaco e una specie di acquolina dolciastra invadermi la gola. Aveva il sapore dei dolcetti glassati che mamma e papà mi avevano portato dall’Uzbekistan. Cioè, me li avevano portati il Natale dell’anno prima e io li avevo inzuppati nel caffelatte quella mattina.
– Avanti Benedetto -, mi ha incalzato la prof. – A cosa è equivalente il quadrato costruito sull’ipotenusa?
Io mi sono accasciato sulla cattedra stringendo eroicamente il gessetto in mano.
– Non mi sento bene, prof… -, ho farfugliato. – Credo di aver mangiato dei dolcetti uzbeki andati a male.
A pensarci bene il colore verdognolo della glassa non doveva essere dato dal pistacchio: difatti più che di pistacchio sapeva di muffa.
La prof mi ha guardato incredula, poi ha fatto un ghigno beffardo, scoprendo quei dentacci lunghi e sconnessi che sembravano i tasti abbassati di una pianola ingiallita.
– Dolcetti uzbeki? -, ha esclamato. – Certo che le scovate proprio di sottoterra!
Non so se rendo, la befanaccia mi stava dando del bugiardo. A me, l’unico ragazzo del sistema solare che in vita sua non aveva mai infranto l’ottavo comandamento! Una calunnia di proporzioni stratosferiche. Ho sentito il sangue salirmi al cervello e per un beato istante la nausea si è dileguata, facendomi ritrovare in un lampo la memoria. Perciò ho gridato con voce strozzata:
– … è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti!
E qui è successo il fattaccio. La prof ha schiaffato la sua faccia deforme a un centimetro dalla mia, oltrepassando spudoratamente la distanza di sicurezza. Cioè, immagino che per sfigati come lei, di bruttezza così repellente, sia d’obbligo tenersi sempre a debita distanza dall’altra gente. E’ tipo l’undicesimo comandamento: “Se sei una schifezza totale e hai un neo peloso sulla guancia, resta sempre almeno a mezzo metro dal prossimo indifeso”.
Fatto sta che mi sono ritrovato davanti questo neo grosso come un ragno tropicale e il ciuffo di peli neri è arrivato a solleticarmi la punta del naso. Come se non bastasse, quando la megera ha gracchiato: “Bravo, ora sì che ci siamo!”, una zaffata di aglio e salame stantio mi ha investito la faccia come un phon puzzolente. Troppo per il mio povero stomaco in subbuglio. Ho fatto in tempo a inginocchiarmi per terra, vomitando una poltiglia verdastra sul pavimento, in cui galleggiavano frammenti di dolcetti uzbeki.
In classe si è diffuso a macchia d’olio un brusio concitato. Chi ridacchiava, chi ammiccava, chi faceva smorfie di disgusto e si reggeva la pancia come avesse anche lui urgenza di espellere qualche dolcetto uzbeko. Solo Melania mi fissava a bocca aperta senza battere ciglio. Nulla di strano: la povera Mel soffre di adenoidi e per farle chiudere la bocca ci vorrebbe o una dose di Superattak o un uppercut sul mento.
Mentre mi rialzavo costernato, la prof è scattata in piedi come avesse un petardo nel sedere.
– Hai vomitato! – ha urlato con quella vociaccia roca tipo sorella di Marge Simpson.
Il minimo che si potesse dire. Sennonché un istante dopo ha aggiunto con voce stridula:
– La geometria ti dà davvero il voltastomaco?
Balla colossale anche questa: la geometria casomai mi fa venire la diarrea, soprattutto quando mi attanaglia la strizza di un compito in classe imprevisto. Sincero come sono, sono sbottato subito per amore della verità:
– No, non la geometria! E’ stata colpa dei dolcetti avariati e di quel suo… enorme neo peloso!
Credo che se le avessi pestato i calli o le avessi fatto un gavettone di vomito, avrei provocato un effetto meno devastante. La Tanturli si è portata repentinamente una mano sulla guancia, mentre con l’altra ha assestato un fendente pauroso al piano della cattedra, roba da far impallidire anche un karateka provetto. Il manuale di geometria è schizzato via planando nel cestino della carta (il posto più giusto per lui), i vetri alle finestre hanno tremato che sembrava il giorno del giudizio e la classe è ammutolita di botto.
Io ho abbassato gli occhi per evitare di incrociare lo sguardo strabico e assatanato della prof, che faceva fulmini e saette da dietro le lenti antiproiettile dei suoi occhiali. E siccome nel frattempo mi si era avvicinata di nuovo, ho evitato in questo modo anche un secondo conato di vomito.
– Rispetto! -, ha gridato la prof rossa e scintillante come un festone natalizio. – Esigo solo rispetto dai miei scolari!
Ne è seguito un profluvio di urli, schiamazzi e strida a proposito dell’insolenza dei ragazzi d’oggi, che non solo scaldano i banchi e inondano i pavimenti di vomito, ma anche insultano impunemente i loro insegnanti inventando offese ripugnanti. E che me l’ero inventato io il suo neo peloso?
– Fuori di qua! – ha tuonato alla fine brandendo il righello. Lo reggeva manco fosse la spada infuocata con cui l’arcangelo (non mi ricordo quale) scacciò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre.
Ovviamente, prima che mi arrivasse una righellata sulla chiorba, mi sono fiondato fuori della porta. Un attimo dopo però ho sentito un altro ululato a ultrasuoni e la porta si è spalancata di schianto.
– Benedetto! – ha ringhiato la prof. – Farai bene ad andare in cantina a prendere straccio e spazzolone. Fra un minuto ti voglio qui a pulire la zozzeria che hai combinato!
Io ho mandato giù un groppo di saliva, poi ho annuito in silenzio. Be’, in fin dei conti, meglio nello sgabuzzino delle scope che in presidenza, ho pensato da bravo tordo. Ma chi poteva immaginare l’orrore che mi aspettava in cantina?
Mentre scendevo mestamente le scale, ho sentito una lieve pacca sulla spalla. Melania mi aveva raggiunto a corsa.
– Ho chiesto di poter andare al gabinetto -, ha detto col fiato mozzo.
– Aha – ho risposto io.
Cos’è, voleva portare soccorso morale al compagno di banco condannato ai lavori forzati? Grazie tante, ne facevo anche a meno. Così ho ripreso a scendere le scale, ma lei mi ha placcato per un braccio.
– Scusa Ben – ha mormorato, – ma a volte mi chiedo perché non sei come tutti.
– Cioè?
Lei si è stretta nelle gracili spalle.
– Dovevi proprio dirle quella cosa del neo peloso? Non bastavano i dolcetti atzechi?
– Uzbeki. – ho precisato io. – L’Uzbekistan è una regione russa a sud del lago d’Aral. I miei ci sono stati…
Melania mi ha interrotto scuotendo la testa. Ha detto che nessun ragazzo sano di mente si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere a una prof di matematica e tantomeno a una come la Tanturli.
– Ma io ho solo detto la verità, porco demonio! – ho urlato.
– O sei scemo o ci fai! – ha gridato lei. – Non capisci che a volte è meglio star zitti? Che ogni tanto bisogna bluffare, che esistono bugie diplomatiche, che una piccola balla innocua può essere mille volte meglio di una scioccante verità, che…
E qui mi è proprio scappato.
– Chiudi il becco, Tonterella! – ho urlato.
Strano ma vero: Mel è riuscita a chiudere il becco all’istante, anche senza bisogno di colla o di un gancio sul mento. Per un attimo, però. Mezzo secondo dopo, infatti, ha riaperto la bocca ansimando pesantemente come uno scampato all’annegamento. Poi ha voltato la schiena e ha risalito la scale a precipizio.
“Diavolo schifo!” ho pensato. “Adesso ho offeso anche lei.”
Non bastava che l’intera classe la chiamasse Tonterella per via della sua bocca sempre ciondoloni? Mi ci dovevo mettere anch’io, l’unico amico che Mel avesse nel raggio dell’Equatore? Oltretutto, lei non mi aveva mai chiamato “Ben Suonato” come tutto il resto della scuola. Be’, magari qualche volta sì, però mai in dosi massicce come gli altri ragazzi, che avevano ereditato il brutto vizio dai miei compagni delle elementari. Questi ultimi a loro volta avevano importato dai banchi dell’asilo il tristo nomignolo, che praticamente mi perseguitava come un tenace mal di denti da quando ero nato.
Così pensavo mentre trascinavo i piedi sul pianerottolo dello scantinato scolastico, una stanzetta buia a cui di norma aveva accesso solo il bidello Natale (non solo a Natale, ma anche tutti gli altri giorni dell’anno). Per cui, se ci andava uno di noi ragazzi, novanta su cento si trattava di una punizione. Capirete, non era piacevole dover armeggiare freneticamente alla parete per trovare l’interruttore, mentre nel buio pesto qualche sottile ragnatela ti accarezzava amorevolmente la fronte. Senza contare che, nei secondi cruciali in cui la mano si affannava a tastare il muro, poteva capitare di sentire lamenti agghiaccianti provenire dal soffitto. In giro si diceva che era solo l’acqua che scorreva nelle tubature del termosifone della scuola, ma, primo, il bidello non poteva confermare questa spiegazione, dato che era muto; secondo, se c’era una regola che seguivo sempre ciecamente era questa: mai fidarsi del prossimo bugiardo!
Ad ogni buon conto, abbassando titubante la maniglia, mi sono ripromesso di fregarmene delle ragnatele e del termosifone ululante, e di non farmi intimidire dal vecchio manichino da sartoria appostato sbilenco nell’ombra come un fantasma senza testa. Avrei fatto un rapidissimo blitz, zompando sull’interruttore in mezzo secondo e acchiappando straccio e spazzolone mezzo secondo dopo.
Sennonché quando ho aperto la porta sono rimasto esterrefatto: la cantina era illuminata a giorno! Un bizzarro chiarore che non proveniva affatto dal neon sul soffitto, ma da una specie di tombino che si trovava al centro dell’impiantito. Un nuovo sistema di illuminazione? Magari collegato a un sensore sulla porta, che scattava non appena questa veniva aperta? Stentavo a credere a tanto spreco di tecnologia in una catapecchia come la nostra scuola.
Insomma, in preda a un’angosciosa curiosità, mi sono diretto verso il tombino inciampando nel manichino come un sonnambulo. Man mano che mi avvicinavo, la luce si colorava di arancione, finché, chinandomi sulla grata circolare, ho notato che diventava di un rosso accecante. Non solo: il tombino emanava un violento calore a ondate, mentre la grata stessa sembrava incandescente e sfrigolava come la griglia di un barbecue. In più mi ha invaso le narici uno strano odore acre, che però non somigliava affatto al delizioso profumino di hamburger arrostito. Al contrario, era una puzza obbrobriosa e insopportabile, che ricordava semmai l’odore di capello bruciato. In breve, ho deciso di telare seduta stante.
Probabilmente l’avrei anche fatto, evitandomi così tutto il resto di questa pazzesca avventura, se all’improvviso non avessi intravisto sotto la grata due occhiacci maligni che mi fissavano. Erano due sfere brillanti come biglie di vetro, che mandavano bagliori gialli e rossi riflettendo la luce sottostante come fossero stroboscopi da discoteca. Vi giuro che non avevano nulla di umano, ma nemmeno di animale. Ero pronto a scommettere che qualsiasi bestione carnivoro del periodo giurassico avrebbe avuto lo sguardo di un bebè innocente in confronto a quel mostro.
Ma l’aspetto più atroce di quella vista era che quei due orribili globi oculari ruotavano tutto il tempo come due mappamondi, uscendo e rientrando dalle orbite a loro piacimento. Non so come questo potesse succedere, ma ero convinto che quell’essere terrificante avesse così una visione a 360 gradi di quello che lo circondava. Eppure, malgrado quell’oscena rotazione, le due abominevoli pupille non smettevano di fissarmi con aria malvagia.
Difficile dire cosa abbia fatto immediatamente dopo l’orrida scoperta, dato che lo shock mi ha mandato completamente in tilt la memoria. L’unica cosa che ricordo è che a un certo punto, appiattito contro l’armadio delle scope, ho urlato a squarciagola: – Diavolo cane! -, il che è stato un errore non da poco. Di lì a qualche istante, infatti, ho potuto verificare di persona che il detto: “Quando nomini il diavolo ecco che spunta la coda”, non era affatto una panzana popolare, ma la tremenda verità.

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