Largo a Tommy Squalo!

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Largo a Tommy Squalo!

di Domenica Luciani
Giunti Junior
2007

Uno

O cavolo che strizza. O mamma me la sto facendo addosso. No, inutile chiamare la mamma, quella non si sa manco che fine abbia fatto. Miseria, mi sento svenire.
Cosa mi farà questa tipa? Aiuto, sta abbassando la poltrona! Mi sento come un astronauta legato alla sua sedia di pilotaggio e in balia di un alieno che sta per sezionarlo con un bisturi affilato. Datti una calmata, Tommy. Quello mica è un bisturi. è solo uno di quei ferretti di rito che usano i dentisti.
“Adesso apri bene, Tommaso” dice la tipa tutta zucchero e miele. Detto questo mi infila il pollice inguantato in bocca, spingendolo in fondo al palato. E se lo addentassi, troncandoglielo di netto? No, meglio di no, sennò mi sbattono in riformatorio facendo la felicità di mio padre.
Voglio dire, già gli girano sempre per colpa mia a mio pa’. Basta vedere come se ne sta ingrugnato anche adesso, seduto in un angolo a occhi bassi a fissarsi i lacci degli anfibi. Intanto si rigira convulsamente fra i denti lo stecchino d’emergenza. Se l’è cacciato in bocca fremente di rabbia, non appena la ragazza assistente della dentista gli ha fatto spegnere la sigaretta in sala d’aspetto. Per inciso, mio pa’ è forte a trovarsi surrogati delle sigarette quando è impossibilitato a fumare. L’ho visto ficcarsi in bocca di tutto, dalle candeline delle torte di compleanno (ovviamente accese) ai cotton-fioc sporchi di cerume.
Scrutare mio pa’ di straforo mi aiuta a non guardare le mani della dentista che mi frugano in bocca coi ferretti micidiali. A dir la verità finora non ho sentito male, ma la tipa potrebbe colpire a tradimento. Perciò è meglio stare in campana. E comunque la paura è come la cacca sciolta, che non puoi trattenere a nessun costo.
“Ora chiudi e tira le labbra” fa la dentista dispensa-sorrisi.
Eseguo l’ordine senza replicare. Del resto, come potrei? è la tipa che comanda i movimenti della mia bocca. Ecco perché i dentisti hanno sempre l’ultima parola.
“Ne ha ancora per molto?” borbotta pa’ con lo stecchino penzoloni dal labbro. “Sa, io dovrei urgentemente…”.
Qui si blocca con un grugnito. Capisce da sé che non è il caso di completare la frase. Non so se rendo: lui dovrebbe urgentemente accendersi una Winston, ficcarsela in bocca a tutta randa e dare due tiri sonori facendo un bel pieno di fumo nei polmoni.
Il sorriso perenne della dentista si smorza leggermente.
“Ho finito” dice sfilandosi i guanti di gomma.
“Bene, allora possiamo anche andarcene” fa papà schizzando in piedi.
Sollievo, sono libero! Così scatto su a sedere manco avessi un razzo a propulsione infilato fra le chiappe. Poi mi libero di quella specie di bavaglino demenziale che mi hanno messo al collo. Quindi zompo giù dalla poltrona mollando senza volere un pestone alla assistente della dentista. Libertà, quanti soprusi sono stati compiuti in tuo nome!
La dentista però si avvicina a mio padre e gli sbarra il passo.
“Un attimo” dice. “Venga di qua nel mio studio che le devo parlare”.
Papà bofonchia qualcosa d’incomprensibile, mentre l’assistente gli fa strada zoppicando lungo un corridoio. Seguono a ruota la dentista e il sottoscritto, che ormai veleggia con la mente per altri lidi. Per la precisione, sto pensando al temperino col manico di osso che mi ha promesso Ciguberto in cambio di due scatolette di Simmenthal e un thermos di caffè.
Lo studio della dentista è una gran figata, con tutte quelle dentature di gesso esposte in bella mostra sugli scaffali. Sai ganzo fregarne qualcuna per fare uno scherzo di Halloween? Tipo quella là coi canini aguzzi, che starebbe a meraviglia a una zucca ghignante.
Pa’ invece non sembra granché entusiasta dell’arredamento e non accetta nemmeno di mettersi a sedere quando la dentista lo invita a farlo. Resta in piedi fissando torvo fuori di finestra.
“Dunque” esordisce la dentista accomodandosi dietro a una scrivania. “Suo figlio ha una mala occlusione di seconda classe, con endotraslocazione degli incisivi laterali”.
Papà resta un attimo perplesso, poi sembra avere afferrato e allora si stringe nelle spalle.
“Vuol dire che hai i denti a squalo” borbotta verso di me.
Grazie di avermelo ricordato. In genere ci pensano i miei compagni di scuola a rispolverarmi la memoria a ogni pie’ sospinto. Tommy Squalo di qua, Tommy Squalo di là. Manco si ricordano più come faccio di cognome.
La dentista mi rivolge l’ennesimo sorriso di quel pomeriggio. Poi dice abbassando la testa di lato:
“In effetti gli incisivi laterali così posizionati danno l’impressione che tu abbia due file di denti come… gli squali”.
“Già, non un gran bello spettacolo” bofonchia mio pa’ succhiando il suo stecchino. “Comunque, sempre meglio che esser nati senza un rene come me. Cose di natura, non ci si può far niente”.
“E qui si sbaglia” interviene lei. “Con un trattamento ortodontico mirato, io potrei correggere la dentatura di suo figlio in meno di un anno”.
Davvero? Io pensavo ci volesse un pellegrinaggio a Lourdes.
è la cosa più sensazionale che ho sentito da quando la preside ha ammesso all’assemblea di classe di non potere stare seduta tanto a lungo perché soffre di emorroidi. Forse vale la pena di approfondire la questione. Così trovo il coraggio di aprire bocca spontaneamente e non a comando.
“Dovrei mettermi un apparecchio fisso?” chiedo intrigato.
La dentista sembra contenta che io abbia rotto il mio mutismo e l’abbia interpellata.
“Certo” risponde, “come molti ragazzi della tua età, che magari hanno difetti meno appariscenti, ma altrettanto degni di attenzione”.
Papà tamburella l’indice sulla scrivania. Noto con orrore che ha l’unghia bordata di nero.
“Quanto verrebbe a costare lo scherzetto?” chiede di punto in bianco.
La dentista gli scocca un’occhiata ostile.
“Dipende” dice. “Grosso modo non più di 5000 euro, comunque rateabili”.
Papà non risponde perché deve avere inghiottito lo stecchino.
Poco dopo, per strada, ritrova la parola, aspirando boccate di fumo dalla sua sigaretta.
“è una vergogna!” sbraita. “Cosa non inventerebbe la gente per spillare soldi a un povero lavoratore”.
Io glisso sulla parola “lavoratore” che riferita a mio padre è meglio lasciar perdere. Però voglio fare lo stesso le mie ragioni.
“Ma scusa, pa’” protesto, “la dentista fa solo il suo mestiere. E poi a scuola mia un sacco di ragazzi porta l’apparecchio”.
Papà diventa una furia.
“Scuola tua!” urla. “Una banda di delinquenti anche loro. Mandano i dentisti a fare i controlli gratuiti in classe e poi ti dirottano da questi pescicani che con le loro parolone vogliono solo alleggerirti il portafoglio!”
Va be’, era chiaro come il piscio. Che mi potevo aspettare da uno che mi manda a scuola con pacchi di fotocopie al posto dei libri di testo, un vecchio tascapane da alpino per zaino e uno yogurt scaduto per merenda. In confronto a queste umiliazioni quotidiane i denti a squalo sono una menata da nulla.
Oggi tira un discreto vento di tramontana e Ciguberto è rannicchiato sotto il suo igloo di cartoni. Fuori spuntano gli scarponi ortopedici color vinaccia. Li ha trovati l’anno scorso in uno dei suoi giri di ricognizione dei cassonetti. Dice sono ideali per i suoi piedi sempre gonfi per la circolazione difettosa. E sfido, in quegli aggeggi XXL entrerebbero comodamente anche le zampe di un elefante obeso.
Ciguberto è un mio vicino di casa, ma lui poveraccio non ha la fortuna di avere un tetto di roulotte sulla testa. Perché nel mondo tutto è relativo: a scuola, fra i miei compagni riccastri che vivono in case col termosingolo, la cabina doccia in bagno e soprattutto il bagno, il poveraccio sono io, che da quando son nato ho sempre abitato in una roulotte nello spiazzo della Faggiola; ma qui alla Faggiola, dove stazionano anche tanti barboni senza tetto, io sono un signore che alloggia in una villa.
Mi chino e busso sui cartoni.
“Chi è?” grida Ciguberto.
“Io, Tommy!”
Invece di sbucare fuori, Ciguberto continua la conversazione come fosse al citofono.
“Che vuoi a quest’ora?” chiede un po’ stizzito.
“Perché, che ora è?”
Voglio dire, sono le cinque del pomeriggio: non è né l’ora di pranzo, né quella di cena, né quella della siesta.
“è l’ora di ieri a quest’ora” bofonchia lui tetro.
Io mi schianto a ridere e spingo thermos e scatolette sotto i cartoni. La Simmenthal l’ho fregata dalla scorta di casa. Papà non se ne accorgerà: ce ne abbiamo a dozzine di questa roba scaduta. Ce la dà Andrea del Minimarket del rione, a volte a metà prezzo, a volte proprio gratis.
L’offerta ricorda a Ciguberto il nostro baratto e così si decide a sollevare un lembo di un cartone.
“Entra pure” borbotta svitando il tappo del thermos.
Entrare? Sotto i cartoni? Per un attimo resto interdetto.
“Allora?” mugugna Ciguberto. “Vuoi entrare sì o no?”
Va be’, magari faccio una battuta.
“Devo pulirmi prima i piedi allo zerbino?” chiedo con falsa titubanza.
“No, lascia stare” risponde serio. “Ma sbrigati perché con la porta aperta entrano gli spifferi”.
Detto questo si attacca al collo del thermos e comincia a bere il caffè a grandi sorsate.
Io mi accuccio accanto a lui sul suo mucchio di stracci e il cartone si abbassa fulmineo sulle nostre teste. Dentro l’igloo c’è una puzza indescrivibile oltreché ovviamente buio pesto. Ciguberto però ha una torcia tascabile e se la punta addosso illuminando la sua faccia da rapace notturno. Poi comincia a frugare freneticamente nelle centinaia di tasche nascoste fra i suoi indumenti cenciosi. Alla fine estrae il temperino col manico d’osso.
“Ecco” dice porgendomelo religiosamente. “Tienilo di conto. Mi è costato un’ora di immersione in un cassonetto infestato di vespe. Dei deficienti ci avevano buttato dentro un vaso con dei resti di miele, grosso come un fustino di detersivo”.
Tipico di Ciguberto. Secondo lui i cassonetti dell’immondizia non dovrebbero contenere immondizia, ma solo roba di vestiario, mobili e oggetti in ottimo stato. Così, battendo sul tempo gli spazzini, lui li frega e li adopera per sé. Si chiama arte del riciclo fai da te.
Però il temperino è bello e non è nemmeno rugginoso. Sembra un oggetto di antiquariato.
“Grazie” dico rigirandomelo fra le dita. “Mi serviva proprio per tirarmi su di morale”.
Ciguberto mi pianta la torcia in faccia.
“Qualcosa non va?” chiede. “Cos’è, la cavadenti ti ha fatto male?”
“La dentista? No, figurati, potevo anche risparmiarmi la strizza. è mio pa’ che fa ostruzionismo come al solito”.
Così gli racconto dell’ultima sparata. Cioè della scena sull’apparecchio e compagnia bella.
“Insomma, sono condannato a restare squalo per sempre” concludo facendo scattare il temperino.
Ciguberto si stringe nelle spalle. Poi spara ridacchiando:
“Meglio squalo che Ciguberto: molta civetta, tanto gufo e poco Alberto”.
A me però non è che la cosa consoli tanto. Adesso che ha cent’anni per gamba lui ci riderà anche sopra, ma non credo che quand’era ragazzo gli abbia fatto tanto piacere essere chiamato a quel modo. Già è tosta doversi portare dietro ogni giorno una faccia con due occhi spadellati da civetta e un naso a becco di gufo. Secondo me avrebbe almeno diritto a una sovvenzione a vita da parte della LIPU.
Ciguberto sembra indovinare i miei pensieri, perché di punto in bianco dice:
“Cosa credi, da giovane ci ho sofferto anch’io. Hanno attaccato a chiamarmi così in terza elementare”.
Però! è proprio vero che la scuola dell’obbligo ti dà l’imprinting per la vita.
“Questo è stato dapprima” continua a spiegare. “Poi mi è venuta una gran rabbia”.
“E allora?” chiedo io.
“Allora ne ho fatto un vessillo” risponde tutto goduto.
Qui mi racconta una storia mai sentita. Dice di aver passato pomeriggi interi nella biblioteca di quartiere a documentarsi su gufi, civette e company. Ha così scoperto che erano uccelli eccezionali, pieni di risorse straordinarie. Tipo la capacità di vedere al buio e di ghermire la preda a tradimento, piombandole addosso senza fare il minimo rumore.
“Poi ho cominciato a esercitarmi a camminare in una stanza oscurata, cercando di aguzzare la vista e soprattutto di non inciampare come un fesso” prosegue tutto fiero. “Sono diventato bravissimo: riuscivo a muovermi disinvoltamente al buio e col silenziatore. Proprio grazie a questo mio talento, già alle medie sono entrato a far parte della Banda dei Dritti. è stato il periodo più bello della mia vita: ero Ciguberto il Notturno e tutti mi temevano e rispettavano profondamente”.
Onestamente mi riesce difficile immaginare Ciguberto come un pischello delle medie. Continuo a vedermelo nel banco con la barba grigia fino al petto e le macchie di cheratite sulle tempie. Però gli credo e la sua storia mi ha impressionato un casino.
Ciguberto il Notturno. Continuo a rimuginarci sopra anche dopo, mentre me ne sto stravaccato in roulotte sulla mia cuccia. Be’, definirla letto sarebbe un tantino azzardato.
E io che talento potrei avere per essere ammesso in una banda? Va be’ che a scuola nostra manco c’è una banda… Okay, riformuliamo la domanda. Che talento potrei avere per essere temuto e rispettato da tutti? Io non so camminare al buio, né credo che imparerei – nemmeno facendo un training intensivo sotto la direzione di un cieco.
Mi alzo di botto e prendo carta e penna. Voglio fare una lista delle cose che io so fare e gli altri no. Chissà che non ci scappi qualche talento nascosto. Così butto giù in quattro e quattr’otto:
1) So abitare in uno spazio di cinque metri quadri.
2) So conficcare rapidamente un temperino sul banco fra un dito e l’altro della mano aperta, colpendo sempre il banco e mai le dita (almeno finora).
3) So tirare i coltelli intorno alla sagoma della prof d’inglese (che ho disegnato io su un pezzo di compensato), senza colpire la prof d’inglese. Solo una volta l’ho beccata su un ginocchio, ma tanto mica è un punto vitale.
4) So entrare e uscire di nascosto a mio piacimento nel Capannone delle Meraviglie.
5) Riesco a non piangere e difatti non l’ho mai fatto in vita mia.
Be’, il primo più che un talento mi sembra una vergogna, e francamente ne farei volentieri anche a meno. Il secondo è cosa nota a tutti in classe mia, ma a parte un rapporto alla preside fatto dalla prof di matematica perché non stavo seguendo la lezione, non mi sembra che abbia suscitato altre reazioni. Il terzo posso anche scordarmelo perché non mi pare il caso di trascinare a scuola la sagoma della prof d’inglese contornata da segni di arma da taglio. Il quarto è un segreto e se lo andassi a spifferare in giro, il capannone verrebbe invaso da un’orda di barbari scatenati e allora addio divertimento. Il quinto non è dimostrabile e quando lo dico non ci crede mai nessuno. Eppure è vero: non ricordo di avere mai pianto (ma la mia memoria non risale oltre i quattro anni di età) e le uniche lacrime che faccio sono quando mi becco il raffreddore da fieno primaverile. Del resto è un fatto assodato che i coccodrilli piangano e gli squali no.

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