Per caso e per naso

casonaso
Per caso e per naso

di Anna Vivarelli
Illustrazioni di Hubert Garnich
Premio Andersen Il mondo dell’infanzia 1994
Collana i Delfini
Fabbri
2001
Acquista il libro
ibs
    
Ecco per voi alcuni capitoli del libro:

Capitolo 1
Ho sentito raccontare una strana storia, accaduta molto tempo fa, o forse quasi ieri, in un paese lontanissimo da noi, o forse appena girato l’angolo.
E’ una storia che parla di incantesimi e filastrocche, gente qualunque e persone malvagie. E’ una storia che parla anche di un poeta di nome Gino Ginestra. Ma è ancora presto per raccontare di lui.
Immaginatevi un paese, grazioso ma niente affatto speciale, un paese come tanti, né bello né brutto: c’è una grande piazza con le panchine e le aiuole, casette sparse dappertutto, una scuola, montagne coperte di querce e castagni e un grande castello diroccato lassù in cima.
Quando la storia ha inizio, l’incantesimo ha già colpito il paese: è un maleficio che non ha uguali in nessuna storia in nessuna parte del mondo e forse, a raccontarlo, si fa fatica a crederci. In questo paese, infatti, da molto tempo ormai la gente non può dire ciò che vuole, né rispondere come gli pare ad una domanda gentile, né fare la spesa né studiare ad alta voce la lezione di geografia. Tutte le volte che si apriva la bocca, bisognava parlare in rima. E questa, capirete bene, è una cosa difficilissima, anche per il più grande dei poeti.

tutte le volte che si apriva bocca
doveva uscire una filastrocca.
Per raccontare, per chiacchierare,
per dire grazie o per domandare
là si faceva in casa e per via
il verso in rima di una poesia…

Ma qui non si parla di un gioco. Qui si sta parlando di una strega, o di un orribile drago a sei teste, o di un gigantesco mostro coperto di peli
Nel paese di questa storia, invece, le cose andavano in tutt’altro modo, purtroppo. Se qualcuno molto di fretta chiedeva ad un passante:
Potrebbe dirmi che ore sono?
bisognava per forza trovare una rima con ono, che non è per niente facile:
s’ode nel cielo un rombo di tuono
oppure
vedo un reuccio seduto sul trono
o magari
se canto in sol è sicuro che stono
o addirittura
oggi mi metto il mio rosso kimono.
Tutte cose che con l’orologio non c’entrano un fico secco. Ma piuttosto che mancare la rima, la gente diceva la prima cosa che gli saltava in testa. Oppure taceva. Perché ogni rima mancata significava una sparizione. Se rispondeva “sono le sette meno dieci” zac!
spariva da un istante all’altro, così, come se qualcuno di molto molto cattivo schioccasse improvvisamente le dita. Oplà: chi era qui un momento fa, ora non c’è più, sparito nel vento, nel nulla, nel blu.
Dove finissero le persone scomparse, questo era un mistero: circolavano in paese leggende strane di streghe e di maghi, di fattucchiere, di mostri e di draghi, ma per la verità nessuno aveva visto qualcosa, o meglio: chi l’aveva visto non era più tornato a raccontarlo.
I meno preoccupati erano i bambini: nati già nel tempo delle rime, non ci facevano quasi caso. Avevano parecchi trucchi grazie ai quali potevano giocare senza volatilizzarsi come nebbia al sole: o sceglievano un gioco molto silenzioso (il gioco del silenzio, per fare il primo esempio che mi viene in mente e anche l’unico) o giocavano ognuno per conto proprio, così non dovevano dir niente a nessuno, (ma questo non era poi un trucco molto intelligente) o avevano imparato a memoria certe rime sciocchine e ripetevano sempre quelle. Per esempio: se c’era bisogno di urlare per strada
Mario, di qua, passa il pallone! qualcun altro gridava di rimando una cosa stupida tipo Ecco, lo vedo, è giallo e marrone! anche se il pallone era a strisce rosse e blu, oppure qualcosa di più personale come Mio zio Tommaso suona il trombone, che poi a nessuno importava niente dei parenti musicisti. Ma tant’è: bisognava arrangiarsi. Sperando che tutto questo finisse improvvisamente come improvvisamente era cominciato.

Capitolo 2
C’era una volta un tempo passato
dove alla rima non eri obbligato,
e frasi in prosa potevi dire
senza per questo di botto sparire.
Canti d’amore in primavera
e ninne nanne quand’era sera,
rime e poesie se proprio ti andava,
quando la storia una rima ispirava…
Così aveva iniziato
il suo racconto il maestro Pennini
che l’italiano insegnava ai bambini.

Ma poi si era interrotto perché non riusciva ad andare avanti, poveretto, e così i bambini erano rimasti lì fermi, con le facce mogie e lo sguardo perso. Tanto erano abituati ai discorsi interrotti a metà, alle frasi che restavano nella testa, alle storie che non avevano un finale.
Certo, c’erano ancora le ninne nanne serali: le mamme le cantavano sempre prima di spegnere la luce, per dire qualcosa prima di dormire e perché le ninne nanne sono una gran bella cosa in tutti i paesi della terra, anche in quelli dove ognuno fa la rima quando vuole.
Ma con una ninna nanna non compri un chilo di mele o due etti di prosciutto. E nemmeno con una filastrocca. O meglio:
se vuoi comprare dieci cipolle
devi acquistare un formaggio molle.
Se poi ti servono degli zucchini
devi ordinarli con due panini
anche se il pane l’hai già comprato la mattina domandando
sei pagnotte
due ricotte,
quattro fette di fontina
mezzo chilo di farina
le lasagne
le castagne
solo un etto
di filetto
rosmarino
e un cotechino
due bistecche
fave secche
poi fagioli
con pinoli
risi
bisi
cioccolato
pan salato
e pan pepato
che non si vendeva più, e quindi serviva solo per la rima: lo chiedevi e non lo pagavi.

***

Gino Ginestra faceva il poeta giramondo, il rimaiolo viaggiatore, il cantastorie un po’ qui e un po’ là. Mestiere duro, di questi tempi e anche di quelli. Ma lui si accontentava di poco. Un piatto di minestra, un posto per dormire e magari anche qualche spicciolo, ma senza obbligare nessuno. C’era stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui
Gino faceva tutt’altro mestiere: per la precisione faceva il ragioniere.
A quei tempi portava un altro nome, ormai dimenticato e certo più adatto ad un ragioniere. Ma quello non era un lavoro per lui. A lui i numeri piacevano poco, e dopo un po’ gli facevano venire un gran mal di testa. A lui piacevano le canzoni, le poesie, le filastrocche. Ne inventava una per ogni occasione, e non faceva nessuna fatica.
Per un po’ andò avanti così, facendo calcoli e inventando rime, ma quando cominciò a far calcoli in rima, la sua vita diventò difficile. Perché sbagliava i calcoli, naturalmente.
Certo, di tanto in tanto qualche conto veniva esatto, ad esempio se c’era un bel sei per otto quarantotto oppure un cinque per cinque che fa venticinque. Ma se gli capitava un comunissimo sei per sette ecco che senza pensarci lui ci metteva un bel quaranta a fette che come tutti sappiamo ne ha due in meno. Ogni giorno, conti che non tornavano, somme sbagliate, numeri a casaccio. Il ragioniere perse il lavoro in quattro e quattr’otto o come lui preferiva dire in quattro e quattro ottantaquattro e se ne andò in cerca di avventure. Finora non ne aveva trovate molte, ma la sua arte di poeta gli dava da mangiare, e non è poco.

***

Gino Ginestra capitò nel paese delle rime un po’ per caso e un po’ per naso.
Infatti, in una sera di fitta nebbia e fitto buio, dove nemmeno un gatto avrebbe intravisto la punta dei suoi baffi, Gino Ginestra andò a sbattere la faccia in un grande cartello.
– Di solito stanno più in alto – pensò.
Ma il cartello del paese delle rime era talmente grande che partiva da terra e toccava quasi la cima della quercia lì vicino. I suoi abitanti erano molto preoccupati che entrasse in paese qualcuno ignaro di quel terribile strampalato incantesimo: capite, non avevano più cuore di veder sparire i viaggiatori. E poi, avevano ancor meno cuore di veder sparire un cugino, un amico, il fruttivendolo.
– Mi scusi, il nome di un buon ristorante? – chiedeva il viaggiatore di passaggio.
– La Tana dell’Orso, ma è un poco distante – sarebbe stata una buona risposta, anche se sbagliata perché la Tana dell’Orso era proprio a due passi e si mangiava malissimo. Ma non sempre la rima veniva al primo colpo, soprattutto se si dovevano dire due bugie in una rima sola. E così, zac! Per voler esser cordiali e sinceri con i viaggiatori erano sparito in un batter di ciglia il vicesindaco con moglie e figlia, il giornalaio che ogni mattina salutava gentilmente l’intero paese, la signorina Soprani, che aveva diretto il coro per oltre vent’anni, e il signor Tronchetti, giardiniere specializzato in rose antiche e così buono che a distanza di anni la moglie Gemma lo piangeva ancora ogni mattina al levar del sole.
Gino Ginestra, dopo essersi massaggiato la punta del naso, si era messo a leggere l’imponente cartello.

Viaggiatore che viaggi per via
cambia sentiero, chiunque tu sia.
Forse tu ignori che in questo posto
in mezzo ai boschi di querce nascosto
senza la rima non puoi fiatare,
senza poesia non puoi raccontare.
Qui chi non canta la filastrocca
anche se stupida, anche se sciocca,
sparisce tosto senza una traccia,
non ha più voce, non ha più faccia.
Tanti scomparvero e non ci son più:
vuoi veramente sparire anche tu?
Corri veloce, vattene lesto!
Qui lo straniero è per tutti molesto.

…continua

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Dove vuoi andare?