Sette volte gatto
Sette volte gatto
di Domenica Luciani
Feltrinelli
1999
Secondo Premio Bastia Umbra 1999
Premio Pippi 2000
Premio Cento 2000 – sez. scuole elementari
I
Nel primo dei primi ricordi che ho, sono su una barca di papiro e ho una paura terribile. Dal fiume è emerso un mostro verde con gli occhi sporgenti che si è preso la mia mamma. La mia mamma lotta come può, e vedo la sua coda gonfia agitarsi nell’acqua. L’uomo dalle mani callose, che prima mi teneva in grembo, mi getta ai suoi piedi e cerca di strappare il remo al barcaiolo. Mentre rotolo sul fondo della barca, lo sento gridare:
– Il remo, presto! Quel coccodrillo lo sistemo io! –
Ma il Barcaiolo si tiene stretto il remo e urla:
– No! E’ sacrilegio! –
La barca oscilla, il mostro è scomparso e la mia mamma con lui. Mani Callose mi stringe al petto:
– Ecco, Thuth, questo povero gattino adesso è orfano. – dice al Barcaiolo – Avrei potuto colpire quel coccodrillo sulla testa e salvare sua madre! –
– Il coccodrillo è sacro. – risponde il Barcaiolo.
– Anche il gatto è sacro e ora la sua morte ce l’hai sulla coscienza. – insiste Mani Callose.
– Non è colpa mia se quella gatta è caduta in acqua, ma se avessi ucciso il coccodrillo allora sì sarebbe stata colpa mia. – replica il Barcaiolo.
Vanno avanti così per un pezzo a discutere su quale dei due animali sia più sacro, il gatto o il coccodrillo.
– Scusate, – dico io a un certo punto, – visto che il coccodrillo è tornato a fare il bagno, perché non lo chiedete a me, che sono un gatto? –
Poi, siccome nessuno mi chiede nulla, mi metto a gridare con quanto fiato ho in gola:
– Io, ogni momento che passa, mi sento sempre più sacro! –
Macché: quei due se ne fregano della mia opinione. Ora si stanno perfino prendendo a spinte, e la barca comincia a oscillare.
– Se non la smettete, – grido io, – si rovescerà la barca, e allora ci toccherà di decidere se è più sacro l’uomo o il coccodrillo! –
Alla fine ognuno dei due grida:
– Per Amon, la verità sta dalla mia parte! –
E poi si voltano la schiena e si mettono zitti a guardare uno verso una sponda e uno verso l’altra. Sulla sponda di destra abita la verità del Barcaiolo e su quella di sinistra abita la verità di Mani Callose, penso io grattandomi un orecchio.
La verità del fiume, che sta in mezzo e che secondo me è l’unica verità, è che la mamma è morta e io ho ancora unghielli troppo teneri per difendermi da questi balordi. Arrivati all’altra sponda, Mani Callose mi prende in braccio e dice:
– Bene. Questo gattino lo prendo io. A lui consacrerò mio figlio appena nato, che così crescerà sano e giusto! –
Non so se poi Piedi Puzzolenti, che tutti chiamavano Sostris, sia davvero cresciuto sano e giusto grazie a me. Anzi, sono sicuro di no, visto che tutte le cose che ha imparato le ha imparate per conto suo, e visto poi che di idiozie ne ha fatte parecchie. Come quella volta – aveva appena smesso di camminare a quattro zampe – che ha liberato i tre maiali di Mani Callose dal recinto e quelli hanno tagliato la corda. Li avete più visti voi? Io no di certo. Da più grande, poi, ha dato fuoco al silos di orzo dietro casa, e quel che è peggio, è scappato ridendo, tutto contento.
Bene, Piedi Puzzolenti ne ha davvero combinate un bel po’, ma, per essere giusti, con me è sempre stato buono e gentile. E per essere giustissimi, va anche detto che pure Mani Callose e sua moglie Passo di Danza sono sempre stati buoni e gentili con me. In effetti, per dirla tutta, la vita da loro era una vera pacchia, e nessuno mi hai mai torto un pelo della coda.
Prendete Mani Callose: con tutto quello che aveva da fare nei campi, trovava sempre il tempo per darmi ogni giorno trentatré carezze sulla testa. Diceva che così il raccolto sarebbe andato bene e l’orzo sarebbe cresciuto vigoroso. Io sapevo bene che le carezze avrebbero fatto bene semmai al mio pelo, e forse anche un po’ al mio umore, visto che mi facevano sempre venir voglia di fare le fusa. Con l’orzo infatti non ci ho avuto mai a che fare, figuriamoci che neanche mi piaceva l’odore. Tuttavia capivo che quel pover’uomo non bisognava deluderlo. Né bisognava deludere Passo di Danza, che tre volte al giorno, mettendomi davanti una ciotola di lardo di maiale, si inginocchiava davanti a me e diceva:
– O sacro Ghib, accetta questa nostra offerta, e se non è troppo disturbo per te, continua a concederci la tua protezione e a sorridere alla nostra casa! –
Io accettavo contento l’offerta e continuavo a dare la mia protezione. Quest’ultima cosa non so bene come riuscissi a farla, ma a regola non me la cavavo malaccio se continuavano a tenermi con loro. In effetti facevo semplicemente tutto quello che mi pareva, e mi ci potevo giocare la coda che loro sarebbero stati sempre contenti. Dormivo gran parte del giorno dove era più comodo, e anzi se dormivo su uno dei loro giacigli pensavano che fosse un grande onore e guai a disturbarmi! Quando pioveva, e per pigrizia facevo qualche bisogno urgente in casa anziché fuori, Passo di Danza esultava come se fosse stata invitata a un banchetto al palazzo del faraone. Se facevo l’atto di fare quella grossa, correva sollecita a mettermi un piatto d’argilla sotto la coda per raccoglierla. Poi, a seconda di come quella roba stava messa, esclamava: – Ghib dice che siamo i prediletti del Nilo! -, oppure: – Per Ghib il mal d’orecchi passerà con la luna nuova! -, oppure ancora: – Secondo Ghib i miei genitori mi salutano dal Regno dei Morti! -. Quest’ultima era davvero grossa, più grossa addirittura di quella che facevo io. Voglio dire, se avessi davvero visto quei due vecchi agitare le mani dal Regno dei Morti, non avrei fatto a tempo a farla nel piatto d’argilla, perché me la sarei fatta prima addosso.
Qualche volta Mani Callose mi portava perfino al campo, a vederlo lavorare. Allora voleva dire che aveva bisogno del mio aiuto per qualche problema: troppi sassi nella terra da seminare, troppo vento che portava via i semi, buoi pigri che non volevano tirare l’aratro. Da casa al campo mi trasportava in una di quelle grosse ceste per le spighe, così che non dovessi fare la strada a piedi. Non ha mai capito che io a quattro zampe non avevo i problemi di equilibrio che avevano lui e tutti i suoi simili.
Fu una di queste volte che riuscii a vedere com’ero fatto. Dal giorno della morte della mamma, il sole, che tutti chiamavano Ra, si era alzato e abbassato più di mille volte. Da allora non ero più stato al fiume, e quando rividi all’improvviso la striscia azzurra sbucare da dietro il campo, mi venne voglia di tornarci. Mentre Mani Callose incitava i buoi bianchi e neri, scappai verso il fiume e in un attimo fui sulla sua sponda. Annusai l’odore fresco che veniva dall’acqua e all’improvviso mi vidi tremolare dentro al fiume. Non c’era dubbio, quel gattone nero dagli occhi gialli ero io.
– Sono una bella bestia! – pensai soddisfatto.
Poi, curvandomi sempre più verso l’acqua, vidi un’altra cosa che mi colpì: sì, ero più nero del nerofumo, ma sul muso, in mezzo ai baffi neri, ce n’era uno, uno solo, bianchissimo e splendente. Sembrava un raggio di luna in un cielo di notte.
– Strano! – dissi – Finora ho sempre pensato di essere Ghib, e invece sono Baffo di Luna. –
In quell’istante seppi che Ghib era solo il nome di un momento, mentre Baffo di Luna sarebbe stato il mio nome per sempre. Avevo ragione! Ghib scomparve nel nulla poco dopo, come del resto tutti gli altri modi con cui gli uomini in seguito mi chiamarono. Nessuno di quegli scriteriati si seppe mai accordare su un nome che avrei potuto tenere per sempre. E siccome le cose degli uomini non durano la vita di una farfalla, feci una bella collezione di inutili nomi. Ma questo allora non potevo saperlo. Allora sentii solo che dentro di me non ero Ghib. Ghib era forse attaccato al mio pelo, e se avessi leccato ben bene per farmi la toeletta, sarebbe scivolato via per lasciar posto all’unico nome che era scritto dentro al mio cuore: Baffo di Luna!
Piedi Puzzolenti aveva già gambe lunghe e pelose che cominciò a parlarmi segretamente:
– Ah mio caro Ghib, – diceva, – sono tanto triste! Mio padre vuole che io faccia il contadino come lui, e che tutta la vita mi spacchi la schiena sulle spighe d’orzo… Ma le mie mani sono troppo sottili, né la falce né l’aratro è adatto a loro! –
E mentre diceva così mi faceva vedere dei sassi lisci sui cui aveva fatto dei disegni: un ibis, uno scarabeo, un occhio… Poi ci sputava sopra per renderli più brillanti e mi chiedeva che cosa ne pensavo. Io allora, invece di rispondere, facevo un gran sbadiglio. Infatti mi imbarazzava un sacco dirgli chiaro e tondo che trovavo quegli scarabocchi abbastanza primitivi.
Intanto Mani Callose si arrabbiava ogni giorno di più con lui per la sua scarsa voglia di aiutarlo nei campi, e Passo di Danza raddoppiava piangendo le razioni di lardo a me, pregandomi di riportare la pace nella loro famiglia. Mi diceva:
– Quanto ci vorrà ancora, prima che la pace ritorni da noi? –
E io, masticando il lardo, dicevo:
– Ci vorrà ancora qualche ciotola di quello tenero, e senza cotenna! –
Un giorno Piedi Puzzolenti si prostrò alle mie zampe ed esclamò:
– Grande Ghib! Ti ringrazio!-
Mi raccontò che io gli ero apparso in sogno, e che con voce umana gli avevo confidato l’unico modo con cui egli avrebbe potuto cambiare corso al suo destino. Poi mi fece giurare che non avrei rivelato il segreto a nessuno. Io lo giurai, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, perché non avevo la più pallida idea di che segreto fosse. Probabilmente dormivo anch’io, e della grossa, quando gli ero apparso in sogno.
Una mattina prima dell’alba, Piedi Puzzolenti mi portò via con sé. Fin dal principio sospettai che quella levataccia e quella fuga silenziosa dovessero avere a che fare col sogno che il ragazzo aveva fatto. Sì, insomma, con quello che gli avevo detto io a proposito del destino. Tant’è che per un po’, ciondolando dal sonno, me la presi con me stesso per essergli apparso in sogno.
– Non lo farò mai più. – pensai.
Poi gli occhi mi si chiusero e, sperando in cuor mio di non entrare più per sbaglio nei sogni di qualcun altro, mi addormentai profondamente.
Piedi Puzzolenti mi tenne tutto il tempo in braccio avvolto in un panno di lino. Alla luce della luna camminò, camminò e camminò fino a sbucciarsi i piedi. Fatto sta che però, anche sbucciati, dopo avrebbero continuato a puzzare lo stesso.
Mi svegliai che era pieno giorno e Ra mi aveva cotto la testa come un uovo. Piedi Puzzolenti mi stringeva al suo cuore che batteva all’impazzata. Eravamo davanti a una grande casa e due guardie armate gridarono:
– Alto là! Chi sei ragazzo, e che cosa vuoi? –
– Mi chiamo Sostris e voglio vedere lo scriba maestro! – gridò allora Piedi Puzzolenti.
– Nessuno ti conosce! Torna di dove sei venuto o assaggerai le nostre frecce! – risposero le guardie tendendo i loro archi.
– Fate pure! – ripose allora Piedi Puzzolenti sollevandomi davanti a sé come uno scudo. Io allora feci una bella soffiata, che in questi casi fa sempre un grande effetto. Le guardie gettarono i loro archi a terra ed esclamarono:
– Per il possente Amon, perdonaci o Sacro Essere! Non sapevamo che questo ragazzo fosse sotto la tua protezione! –
– Questo sì che si chiama parlare! – gridai io.
Fu così che Piedi Puzzolenti, usandomi come lasciapassare, entrò nella grande casa, fu presentato allo scriba maestro e ammesso nella scuola di scrittura. Be’, non ci crederete: lo scriba maestro aveva trovato molto interessanti i sassi con gli scarabocchi.
Piedi Puzzolenti, quando lo seppe, si mise a braccia incrociate e mi disse:
– Visto Ghib? Lo scriba maestro è grande! –
– Lo scriba maestro non è affatto grande, – dissi io, – E’ solo corto di vista. –
Be’, forse non avrei dovuto dirlo, ma mi scappò proprio.
La vita si fece più noiosa per me. Naturalmente ero sempre servito e riverito come si conviene ad un Sacro Essere, ma l’aria aperta e i campi d’orzo me li ero scordati. Me ne stavo tutto il giorno nel salone della scuola a osservare Piedi Puzzolenti con le gambe incrociate che scarabocchiava cacatine di mosca con una cannuccia in mano. Ora però non usava più sassi teneri, ma strisce sottili di papiro. Lo scriba maestro era molto contento di lui. Eppure le strisce di papiro, che teneva stese sui ginocchi, erano ben vicine ai suoi piedi e quindi dovevano puzzare un bel po’ anche loro. Ma che ne so io, probabilmente lo scriba maestro era anche corto di naso.
Se non altro, a forza di star seduto tutto il giorno, Piedi Puzzolenti non corse più il rischio di perdere l’equilibrio: non combinò più disastri, tipo quello dei maiali, e diventò più calmo e lento a parlare.
Un giorno entrò nella scuola un tizio mai visto prima che aveva lunghe dita scintillanti. Si avvicinò a Piedi Puzzolenti e accennando a me che gli stavo sdraiato accanto, disse:
– E così, questo è il grande Ghib! –
Piedi Puzzolenti annuì:
– Sì, ti ho detto la sua storia. Sua madre lo ha partorito dentro una barca e il barcaiolo non ha avuto cuore di scacciarli. Quando la madre è morta mio padre lo ha preso con sé. Ora ce l’ho io e grazie a lui il mio destino è cambiato. –
– Bene, ti darò tre pezzi d’argento per averlo. Sarà il mio modello preferito! – disse Dita Scintillanti.
– Quello che Ghib mi ha donato vale più di tutto l’argento della valle del Nilo. Ero un figlio di contadini e ora sono uno scriba. Non posso desiderare niente di più. Prendilo pure, e possa egli favorirti come ha favorito me! –
Nessuno chiese il mio parere. Dita Scintillanti mi prese con sé e io lo lasciai fare sbattendo appena la coda. Ma solo perché ormai della scuola di scrittura ne avevo fin sopra i peli del capo. Un cambiamento ci voleva.
Dita Scintillanti aveva un grande laboratorio e tutto il giorno lavorava metalli. Ma il suo guaio era che non aveva idee. Quando arrivai io non sapeva far altro che scimmie: scimmie piccolissime da attaccare alle orecchie neanche fossero rami di una palma; girotondi di scimmiette da infilare nelle braccia; scimmie che mangiavano banane, che facevano le boccacce, che si grattavano le pulci. Dita Scintillanti aveva infatti una scimmia che gli faceva da modello. E appunto era successo che, siccome le scimmie camminano su due gambe come gli uomini, questa scimmia gli aveva combinato un sacco di disastri. Ecco perché lui l’aveva data via a un mendicante pidocchioso e aveva preso me.
Dita Scintillanti, da allora in poi, cominciò a fare gatti con baffi di luna in tutte le salse. Io dormivo tranquillamente e lui mi fissava, mi fissava, mi fissava tenendo una cannuccia in bocca. Quindi mi rifaceva tale e quale prima su una striscia di papiro e poi su un pezzo di metallo. Qualche volta però non gli venivo bene: poteva essere una zampa più corta delle altre, poteva essere un orecchio più schiacciato, fatto sta che Dita Scintillanti se la prendeva con me. Gridava:
– Colpa tua! Non sei stato abbastanza fermo! –
Ma secondo me era lui che sbagliava. Infatti io mi ero mosso ancor prima di nascere, eppure, secondo me, la mamma meglio di così non mi poteva fare.
Dita Scintillanti non mi chiamava più Ghib. Diceva:
– Ghib è troppo comune. Tu mi sei caro come mio figlio morto, che si chiamava Tnupri. Perciò, se ad Amon è gradito, tu sarai Tnupri Secondo. –
Tnupri Secondo non era forse un brutto nome, ma quello che era brutto era che fosse il nome di uno che era già morto e imbalsamato. Perciò, non feci che sperare tutto il tempo che Amon si facesse vivo per protestare. Ma si vede che a lui invece era gradito perché non lo fece mai.
Un giorno una ragazza venne a vedermi. Questa poveretta camminava a passi piccolissimi e incerti e tintinnava a ogni passo come un albero di lupini scosso dal vento. Infatti aveva un vestito strettissimo ed era carica di metalli, tutti lavorati da Dita Scintillanti. Guardando bene, vidi che tutti quei metalli raffiguravano me: aveva Baffi di Luna d’argento che pendevano dalle orecchie, un grosso Baffo di Luna attorcigliato come un serpente al suo braccio e un altro d’oro e con occhi di lapislazzuli che le ciondolava sul seno.
– Il tuo Tnupri Secondo è più bello dal vero che ricoperto d’oro e d’argento! – esclamò Passo Tintinnante lisciandomi sotto il mento.
– O nobile Sati, – disse allora Dita Scintillanti senza mai alzare lo sguardo da terra, – che egli possa far felice te, come ha fatto felice me, concedendomi la sacra ispirazione! –
E così dicendo mi prese di peso e mi mise tra le braccia di Passo Tintinnante, che din, din, din, un passettino dietro l’altro mi portò via.
Così lasciai anche quel pover’uomo, pensando che ora senza scimmie e senza gatti sarebbe stato tutto il giorno a grattarsi la testa con la cannuccia per farsi venire qualche bella idea. Ma poi seppi che qualcuno gli aveva portato una vacca bianca e nera e lui ora aveva un gran daffare a modellare corna e zoccoli di mucca.
A quel tempo lo incontrai per caso un’altra volta. Lo vidi vicino a una fontana dove mi ero fermato a bere. Sembrò che fossi trasparente come l’acqua che bevevo, perché lui non mi rivolse né parola né saluto. Quando il ragazzetto che lo accompagnava gli disse:
– Padrone, ma quello non è forse il tuo Tnupri Secondo? Il Sacro Essere che ti ha ispirato per tanto tempo? –
Dita Scintillanti rispose:
– L’ispirazione che ho adesso è la sola sacra e vera. Quel che mi ha ispirato prima non lo ricordo più. –
Povero Dita Scintillanti! Il suo equilibrio doveva esser cattivo né più né meno che la sua memoria: infatti, detto questo, inciampò di brutto in una pozza d’acqua e cadde a faccia in giù nella fontana.
La mia nuova casa era proprio il palazzo lussuoso che avevo visto tante volte dalla scuola e poi dal laboratorio dei metalli. Un palazzo enorme, fatto con un grande spreco di spazio.
– Ecco, – pensai, – I ricchi hanno poco equilibrio come i poveri, ma almeno hanno più spazio per cadere e così si fanno meno male. –
Al palazzo mi servivano e riverivano il doppio e anche il triplo che dalle altre parti. Alla lunga però tutte queste attenzioni mi seccavano un po’. Soprattutto Passo Tintinnante mi rompeva un sacco le scatole con tutte quelle moine: – Iri qua, Iri là…- , era sempre a vezzeggiarmi. Iri era il mio nuovo nome, che nella lingua del popolo del Nilo significa ‘occhio’. Passo Tintinnante, infatti, non faceva che dire che avevo occhi bellissimi. Mai una volta che abbia detto:
– Iri, che bel baffo bianco che hai! –
Ma Passo Tintinnante si fermava a guardare solo gli occhi della gente. Per gli occhi ci aveva una vera fissazione. Infatti non solo si dipingeva i propri di nero per farli più grandi e belli di quel che fossero, ma anche per lei la gente che non aveva occhi belli non esisteva proprio. Questa era una vera ingiustizia. C’era per esempio un giardiniere che aveva un bel naso diritto con sopra certi occhiolini scuri. Occhiolini era molto gentile con Passo Tintinnante. Quando la vedeva si metteva a quattro zampe e camminando così le portava in bocca dei bei fiori gialli. Ma Passo Tintinnante li buttava da una parte senza neppure annusarli. Poi gli diceva:
– Non osare neppure guardarmi con quegli occhi! –
Allora Occhiolini chiudeva gli occhiolini, però non se ne andava. Stava lì a testa alta e diceva:
– Sei molto bella nobile Sati! –
Ma Passo Tintinnante replicava:
– Come fai a dirlo se hai gli occhi chiusi! –
– Perché sono aperti quelli dello spirito. – rispondeva Occhiolini.
Però Passo Tintinnante lo cacciava via in malo modo. Eppure, dico io, che le sarebbe costato controllare se anche il suo spirito avesse occhiolini come quelli sulla faccia oppure no?
Capitava che delle volte non ne potevo più delle moine di Passo Tintinnante e così le appioppavo un graffio dove non era ricoperta di metalli. Allora lei si succhiava il sangue tutta contenta e diceva:
– Iri mi ha degnato della sua attenzione! Vuol dire che presto vedrò Mekethi! Il mio Mekethi! –
Ma io all’inizio neanche sapevo chi fosse questo Mekethi. Allora sbattevo la coda qua e là come una frusta per buoi, e scappavo in giardino. Il giardino era bellissimo e in genere là nessuno mi infastidiva. Certo, ogni tanto Occhiolini o qualche altro giardiniere si gettava ai miei piedi e rimaneva lì in ginocchio finché non correvo via dietro a qualche farfalla. Tutte le volte mi gridava dietro:
– Buona caccia a te, o Sacro Essere! –
E se si trattava di Occhiolini, io allora gli rispondevo gentilmente:
– Buon lavoro a te, Occhiolini! –
Perché a me Occhiolini stava un sacco simpatico. Anche se non li avevo visti, ero sicurissimo che il suo spirito avesse occhi bellissimi.
Quando non inseguivo farfalle, stanavo le lucertole sotto le pietre. Se vedevo appena muoversi qualcosa, infilavo una zampa sotto un sasso al sole e otto volte su dieci scappava via una lucertola. Le lucertole però era più bello cacciarle che mangiarle. A mangiarle c’era sempre la solita storia, che siccome erano un po’ durette da masticare, le buttavo giù vive nello stomaco. Sicché c’era sempre il rischio che la coda mi andasse di traverso. Una volta mi è anche successo e stavo per soffocare. Ho dovuto risputare fuori la lucertola che in tre salti è scappata via sotto un sasso. Subito dopo mi è presa una gran nostalgia di lei, che quasi mi sarei messo a piangere che non era più nel mio stomaco. E’ che mi capita spesso di farmi prendere dai sentimenti, perché anche se sono un gatto, ho un cuore grande come quello di un bue.
Nel giardino si potevano fare davvero tante cose. Quella che mi piaceva di più era senz’altro dormire. Quando Ra era altissimo nel cielo, mi addormentavo sempre profondamente tra le sue calde braccia. Dimenticavo tutto: Ghib, Tnupri Secondo e Iri, e facevo un sacco di bei sogni. Una volta, per esempio, sognai che ero grande come un albero e gli uomini mi saltellavano intorno come passeri sui rami, dicendo: – Sacro Essere, dammi questa cosa! – oppure, – Sacro Essere, esaudisci questo mio desiderio! -. Allora io dicevo:
– Esaudirò solo Occhiolini! –
E così davo ad Occhiolini un paio di occhi straordinari, che lui avrebbe potuto tenere ben aperti davanti a Passo Tintinnante. Mi svegliai da quel sogno tutto contento, facendo le fusa.
Non so quando fu che Passo Tintinnante cominciò a parlarmi piangendo. Il problema era il Fangoso che lei chiamava Mekethi. Anzi no, il problema era il padre di Passo Tintinnante, che non voleva che lei vedesse il Fangoso. Secondo me ci aveva ragione a palate. Il Fangoso infatti era piccolo, curvo e con le mani sempre sporche di fango. Aveva solo degli occhi grandissimi, ma per il resto era un essere schifoso, che infatti fu causa della mia rovina. Passo Tintinnante però ne era innamorata e ormai quel poco cervello che aveva se l’era fritto in una padella d’argento.
– Ah, Iri, mio Iri! – singhiozzava, – Non val più la pena vivere se non potrò mai avere Mekethi! Perché sono nata figlia del faraone? E perché la figlia del faraone non può amare un vasaio? E perché amare un vasaio mi trascinerebbe nel fango? –
– Perché quello nel fango ci sguazza, e anche nell’argilla! – dicevo io.
Ma la sciagurata non mi dava ascolto e continuava:
– Oh possente Amon, suggeriscimi tu la via da prendere! –
Però questo Amon non suggeriva nulla, né sul Fangoso, né su altre cose. Anzi, se lo volete proprio sapere, non si sognò mai di farsi vedere, nonostante che fosse sempre sulla bocca di tutti.
Successe che Passo Tintinnante, una mattina che era più triste del solito, si mise a preparare da mangiare con delle strane erbe. Lei che, a parte tintinnare, non sapeva far altro tutto il giorno. La cosa avrebbe dovuto perciò insospettirmi, ma che volete… Ra aveva tinto di giallo il bel giardino, dove farfalle bianche e leggere si facevano trasportare da un venticello caldo come il fiato di un gattino. Quella mattinata ne avevo acchiappate un bel po’, più due lucertole che mi erano scivolate giù in gola lisce come gocce di pioggia. Insomma ero stato così felice all’aria aperta, che quando Passo Tintinnante mi portò da mangiare le corsi incontro facendo le fusa. Non mi accorsi nemmeno che la pappa d’erba aveva un sapore strano, e che anche Passo Tintinnante ne mangiava da un’altra scodella. Capii solo quando lei, prendendomi in braccio, mi disse:
– Iri, adorato! Tra poco scenderò nel Regno delle Ombre e tu mi accompagnerai. Non aver paura: mio padre ci darà tutto quello che ci occorre per il viaggio, e non soffriremo né la fame né la sete. La vita sul Nilo, senza Mekethi, non mi piace più! –
Me infelice! Altro che sacro Essere, altro che Iri adorato! Quella stoltissima donna mi aveva avvelenato, e quel che peggio, per colpa del lurido Fangoso! Perchè non si era avvelenata da sola? Che c’entravo io nella faccenda? Avrei voluto scalciare, soffiare, graffiare e scappare. Ma mi sembrava che tutto il palazzo mi fosse crollato addosso e non riuscivo più a muovermi. Il giardino tinto di giallo divenne grigio e le farfalle scomparvero. Passo Tintinnante dette un sospiro e allargò le braccia che mi tenevano stretto: io scivolai giù giù in una notte nera dove nemmeno il mio baffo di luna avrebbe potuto risplendere.
Così finì la mia prima vita nella valle del Nilo. In altri tempi ho poi sentito dire che là c’è stata una delle più grandi civiltà mai esistite. Ma io direi la più grande di tutte e festa finita. A meno che non ce ne sia stata qualcun altra in cui il gatto fosse un Sacro Essere.
Ecco perché ogni tanto ci ripenso con un po’ di nostalgia. Non ci si può far nulla, la prima vita non si scorda mai.